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Peace is for pussies

Lost river (post-kamikaze con un po’ di Mad Max e Barbara Steele)

lrMy Body’s a Zombie for You

Post anomalo, arrogante, scazzato, isterico.

Recensione non-recensione, con riflessioni sparse e scriteriate sulla critica cinematografica scritte da uno che ha solo un blog, per carità di Satana, riflessioni che non partono da me come persona (ho smesso di avere un blog-smemoranda quasi da subito), ma da me come lettore assiduo di recensioni e riviste a tema, come potrebbe essere chiunque.

Di personale c’è solo la sensazione di smarrimento di fronte ai moti ondivaghi della critica ufficiale (nonché all’inadeguatezza di chi, per routine, recensisce i film con Jennifer Aniston e poi gli tocca un film festivaliero o di genere).

Flowers Grow Out of My Grave

Esperimento al limite dell’impossibile: proporre una rivalutazione in positivo di Lost river alla luce delle quasi unanimi recensioni negative che lo hanno reso famigerato, anche tra chi non ne ha visto un solo minuto.

Rivalutazione in positivo non significa affermare è un capolavoro, parola che uso con grande parsimonia, che sono arrivato a detestare e molto in voga negli ambiti del tifo calcistico, scusate, critico.

Significa che così come qualcuno considera capolavori film pieni di difetti obiettivi e, soprattutto, macroscopici, specularmente qualcuno etichetta come merda d’artista film pieni non solo di difetti ma anche di pregi obiettivi e, soprattutto, macroscopici, non salvando neanche la classica pepita d’oro in mezzo al guano.

La caratteristica che più mi lascia perplesso di alcuni commenti è che gli stessi criteri in base ai quali vengono incensati alcuni film siano adottati per denigrare altri film ancora.

Se un tumore è un carcinoma non è che puoi minimizzare troppo la faccenda: magari non ti ucciderà, ma è maligno. Ed esistono linee guida per stabilire se t’ucciderà o se non dovrai prenotare il cappotto di legno.

Qualcuno commentando un film fa finta di non vedere il tumore maligno.

Qualcuno, invece, pur sapendo che il tumore non lo ucciderà, corre già a prenotare l’estrema unzione.

Il mio tentativo sbilenco è quello di fissare o analizzare alcuni criteri, indubbiamente discutibili e arricchibili di sfumature, ma che mi stupisco soffrano di ambivalenza.

Young & Tragic

Un primo punto di critica era già implicito nella premessa: osserva pure il tumore, ma osservane anche le sfumature perché cambia la prognosi.

Illustrami i difetti ma, se esistono, illustrami anche i pregi: pochi sono i capolavori, molti di più i fallimenti totali, ma la maggior parte dei film si collocano a metà di questi insiemi.

Il corollario è: se il film è di un esordiente di provenienza immacolata non commetti peccato se indossi un guanto non di ferro, a maggior ragione se il malcapitato ha sudato per realizzare il suo film.

Pur essendo portato a sostenere opinioni nette e tagliate con l’accetta (seppure dopo ragionamenti al microtomo), ho più volte scritto di essere indulgente con le opere prime, non solo, è evidente dai miei post che ho una certa passione proprio per gli esordienti o semi-tali, alle cui opere ho dedicato tempo con un certo investimento emotivo sperando, per quanto goccia nel mare, di contribuire al passaparola su film schiacciati dall’informazione sulle grandi produzioni.

Conoscendo, almeno un po’, le difficoltà affrontate da registi esordienti, quando il risultato delle loro azioni è pure encomiabile possiamo trattarli con maggior rispetto e regalare almeno un po’ di entusiasmo e incoraggiamento?

Possiamo sui piatti della bilancia far pesare di più i pregi rispetto ai difetti soprattutto se i pregi sono pure lampanti?

Perché una stroncatura significa anche aborto sul nascere di una carriera cinematografica, un aborto magari immeritato (gli unici esordienti sui quali ho scritto parole di fuoco sono stati i responsabili di Coherence, ma questo proprio perché sono diventati involontariamente nemici degli esordienti e parenti di quelli che accettano lavoro a gratis. E Coeherence è piaciuto molto anche per questo ignobile motivo, quindi mi sono permesso di mettere per iscritto un rutto di disprezzo, ché tanto ormai gli elogi erano diventati virali).

Ora, Ryan Gosling in quanto regista e sceneggiatore è un esordiente e su di lui al massimo posso avere elaborato opinioni come attore (opinioni non particolarmente lusinghiere).

Pertanto spero che nessuno abbia avuto un approccio kill the star guardando Lost river, ma un approccio neutro.

Mi sembra pure un ragazzo simpatico, non è mica Tom Cruise, no?

Pa Pa Power

Che cosa offre Ryan Gosling con Lost River, per altro frutto degli oboli di case produttrici minori:

  1. impianto visivo da spellarsi le mani per gli applausi allestito da Benoît Debie, già sfruttato per le sue incredibili e versatili capacità tecniche da registi con altrettanto incredibili conoscenze tecniche, quali Du Welz o Gaspar Noé (no, non storcete il naso: vi piaccia o no Noé tecnicamente ha i controcoglioni, indipendentemente da quel che gira, che lo so, ci potremmo litigare a proposito per giorni, e comunque Seul contre tous è un capolavoro (!) e se non l’avete visto neanche vi ascolto).
  2. cornice sonora di Johnny Jewel, già sfruttato da Nicolas Winding Refn per Bronson e Drive, che ha il pregio di saldare lo zibaldone di immagini in un’atmosfera coerente e creare un flusso emotivo senza soluzione di continuità, quasi un accompagnamento per film muto senza quell’eccesso tipico di didascalicità o il difetto di riempire vuoti emotivi (qui dovete piangere, qui urlare, qui potete schiacciare un sonnellino perché questa scena è inutile).
  3. posto che Debie e Jewel sono talentuosi a prescindere, comunque sono sempre strumenti di un’orchestra e l’orchestra la dirige il regista che non solo ha coordinato e modulato le loro azioni (ed è evidente), ma in concerto con l’editor ha reso Lost river una visione senza smagliature o elementi anarchici (che in un film già anarchico e barocco nelle intenzioni visive avrebbero condotto a un disastro). Glielo possiamo riconoscere a Gosling o dobbiamo ipotizzare che Debie, Jewel e Valdís Óskarsdóttir (di estrazione Dogma 95 ma pure montatore per Eternal Sunshine of the Spotless Mind) abbiano lavorato autonomamente e dato che sono eccellenti nel loro campo non poteva che essere partorito un risultato eccellente?
  4. un preciso contesto socio-economico che non ha bisogno di troppe scene per essere approfondito: è sufficiente la scena del colloquio di lavoro, è sufficiente la visione di case che vengono demolite coercitivamente, è sufficiente la scena di addio di uno degli abitanti, è sufficiente tutto quel sobborgo dei sobborghi di Detroit per raccontarci, se non urlarci, caso mai foste ciechi e sordi, che stiamo osservando i margini estremi dell’onda della crisi economica. A contraltare l’immaginifica, atemporale, a tratti futuristica sede del moderno Grand Guignol per ricchi che ha sostituito nel divertimento il parco a tema coperto d’acqua per creare un lago artificiale.
  5. pochi dialoghi, nessuno inutile, concisi, forse qualcuno poteva persino essere accorciato ulteriormente, ma bastano sguardi e interazioni fra gli attori, bastano le immagini per descrivere e là dove l’immagine non arriva impera Christina Hendricks: semplicemente e banalmente bellissima, riesce a essere disperata, affranta, madre che rincuora, seducente, donna che si riscatta, assassina ribelle. Potrebbe recitare intere tragedie greche solo a gesti e sguardi. Non sono di parte, non ho mai guardato Mad Men, per dire, e in Drive non riveste un ruolo importante, ma se questo film è paradigmatico delle sue capacità attoriali la considero poco meno che eccezionale. Il suo sguardo riesce a surclassare persino quello della coprotagonista Saoirse Ronan (sul cui fascino ipnotico non credo di dover spendere parole).
  6. prevalenza di personaggi femminili, tutti con storie alle spalle differenti nonché un campionario di figure femminili che non potrebbe far sollevare mezzo sopracciglio a nessun ipervigilante del trattamento delle figure femminili, oltre al fatto che Gosling, pur avendo a disposizione Eva Mendes e Christina Hendricks, due sex-symbol (chissà se posso scriverlo o mi arresteranno per lo stupro di Sansa Stark mentre Boko Haram ci sussurra Bitch, please!) che interpretano oggetti umani sui quali viene riversato viscido interesse sessuale venato del peggior sadismo, ma mai le denuda, mai le umilia gratuitamente o in scena, mai le rende oggetto di compassione paternalistica in qualità di vittime. In compenso i maschi sono tutti perdenti, illusi o violenti.

Buried in water

Di recente è stato distribuito nelle sale un film di genere differente, Mad Max: Fury Road, film che ho definito su Twitter il Natural Born Killers del post-apocalisse aggiungendo che i registi avrebbero potuto smettere di girare film intanto non c’è più altro da vedere.

Vedere è proprio il verbo appropriato perché Mad Max: Fury Road è visione: tratteggia personaggi e contesto e storia quasi esclusivamente tramite le immagini, senza cartelli o avvisi per i distratti.

Il minimalismo verbale compensato da una potenza e una magnificenza sensoriale che ti fanno sorgere quel raro dubbio di aver assistito a un film epocale.

E siccome mi pare inutile scrivere anche la mia opinione, dato che è evidente e che potete reperire in ogni dove appassionati approfondimenti su qualsiasi sfumatura del film, tranne che sulla stampa italiana distintasi per nonnismo (proprio nel senso di ospizio), ricordo solo che una certa sorpresa (come stiamo messi!) è stata sollevata dal ruolo e dalla gestione dei personaggi femminili che, un po’ mitologiche guerriere di Kobane, un po’ distruttrici del patriarcato, sono già diventati icone, suscitando le ire di qualche penemoscio americano (e poi suvvia, della serie Mad Max tutti ci ricordiamo i nani, Tina Turner, le vetture, il deserto, mica Occhidapazzo Gibson).

Prendo Mad Max: Fury Road ad esempio perché è fresco nei nostri occhi, ma potrei citare molti film in cui la narrazione è più impressionista che verbale (e teneteveli pure gli script di Nolan e Sorrentino, che tra l’amore è l’unica cosa che trascende il tempo e lo spazio e le emozioni sono tutto quello che abbiamo mi chiedo davvero come abbiate fatto a non ficcarvi un cacciavite nei timpani), potremmo anche solo ricordare Drive, visto quanto Gosling ha copiato da Refn, che mise d’accordo pubblico e critica in buona parte.

Il concetto di spettacolo/cinema/visione/altroascelta-puro è stato ricorrente ed apprezzato proprio come metodo narrativo.

Uno script di una manciata di pagine per due ore di film che racconta un intero microcosmo.

Applausi anche per gli aspetti antipatriarcali, anticapitalisti e anti-altroascelta.

Mad Max: Fury Road ti prende per le palle, ti mette una tongue-ball in bocca e quando speri di poter riprendere fiato ti frusta e ti frusta ancora finché non ti sanguinano gli occhi e le orecchie e tu hai raggiunto almeno cinque orgasmi.

In Lost River l’adrenalina non è di quel tipo: non ci sono esplosioni, inseguimenti a rotta di collo, acrobazie.

L’adrenalina deriva dalla discesa disperata dei personaggi negli inferi, ma le scelte narrative sono analoghe.

Perché nel caso di Lost River la scelta viene considerata inadeguata e ricorre il commento che il contesto socioeconomico è solo accennato o che la sceneggiatura è debole?

Vi sembra che Miller abbia diretto un manifesto post-capitalista leggendocelo o illustrandocelo?

Inoltre il background di Lost River è praticamente gridato e plurilivellato, a suon di immagini.

Era preferibile uno di quegli inguardabili film di Ken Loach, che qualcuno gridasse hey, guarda bene, questo è un lumpenproletariat vittima del turbocapitalismo?

Paper ships

La principale critica al film, tuttavia, è riassumibile in sembra un omaggio randomico a tutti i propri amori cinematografici.

E’ curioso che quando un certo regista copia a mani basse cinematografia italiana di genere piovano soldi di pubblico ed elogi di critica, mentre se un altro ha come riferimenti visivi Mario Bava (presente nel cast pure Barbara Steele!), l’immancabile surrealista David Lynch, Reiner Werner Fassbinder (scene in tv da Il matrimonio di Maria Braun, in un gioco meta abusato, ma non per questo deprecabile se narrativamente giustificato com’è in questo caso), Gaspar Noé e pure lo stesso Nicolas Winding Refn (che, anche nel male, in questi anni è stato molto chiaccherato come artista) si riducano i riferimenti artistici, tutti alti e rimetabolizzati per una storia che nulla spartisce con quei riferimenti, a plagio, citazionismo da mancanza d’ispirazione o collezione disordinata.

Se non bastasse, proprio aver imparato da alcuni dei migliori consente a Gosling di impaginare diverse sequenze memorabili e che mi ricorderò per diverso tempo, dalla scena mozzafiato dello spettacolo gore incentrato su Christina Hendricks a quella nei sotterranei.

In the room where you sleep

Insomma, Ryan, la prossima volta per le scene horror ripiega su James Wan, per il contesto socioeconomico dialoghi infiniti tra i protagonisti a proposito delle bollette di casa, per le visioni televisive di un’anziana Stanlio e Ollio, per la fotografia smarmella tutto, che se no non sei presentabile al cineforum del centro sociale, per la musica meglio nulla o un Wagner, che fa ancora discutere, e poi davvero, sottolineo, davvero vuoi togliere le coordinate ai sopiti spettatori creando un contesto visivo differente per ambienti differenti?

Come hai osato a creare un universo à la Twin Peaks?

Poi se il critico alza gli occhi dallo smartphone e passa da Detroit-povera a un nonluogo con portoni demoniaci e una sala di prostituzione in cui la prostituta è rinchiusa in una vergine di Norimberga di plastica come può  orientarsi?

Cioè, addirittura DUE ambienti, quello povero e quello ricco? Ci confondi.

E poi tutti quei neon, quei meravigliosi contrasti cromatici: ci volevi forse causare una crisi epilettica?

E poi dalla luce di ambienti alienati (socialmente, umanamente…cioè, volevi pure rappresentare visivamente un contrasto? Metti una didascalia!) ci conduci tra le nebbiose fatiscenze di una palude?

Qual è il punto, Ryan? E’ così semplice la tua storia che non sono neanche riuscito a seguirla!

Il punto è che chi soffre di ADHD, considera poco solido e incomprensibile un film assolutamente solido, che è lì, sullo schermo, basta osservarlo e si racconta da solo, e non è che racconti la storia delle storie (o forse sì, ma con magica semplicità e simbolicità?), ma se non c’è un’esplosione ogni due minuti si addormenta, potrebbe, è un umile invito, dedicarsi solo a commentare i tweet dei VIP.

Contesto socio-economico pienamente descritto: checked.

Spessore dei personaggi, compresi, e soprattutto, i personaggi femminili: checked

Cornice artistica: eccellente.

Cast: sopra la media

Sceneggiatura: equilibrio fra dialoghi necessari e narrazione impressionista/surrealista.

Il naso si può storcere perché visivamente Lost river non sempre brilla per originalità o si distacca dall’interiorizzazione di Gosling di certa cinematografia, ma il risultato è a tratti lisergico, sempre elegante, una seduzione potente per gli occhi e senza l’autocompiacimento tipico dell’amico a tratti emulato Nicolas Refn.

E preferisco un regista che per costruire un’immagine si rifa ai più talentuosi che uno che piazza telecamera e luci a caso, e imitare i migliori, appropriarsi della loro lezione e raggiungere i loro livelli (tanto che riusciamo a identificarli nome per nome, ma non è che Gosling si nasconda dietro a un dito) richiede comunque doti tecniche non così diffuse.

Se avesse voluto compiere la furbata, Gosling avrebbe potuto ripiegare sull’ennesimo fottuto mockumentary che tutte le mancanze di talento può nascondere.

L’augurio è che Gosling, ora che si è fatto le ossa, e ha dimostrato di poter fronteggiare le sfide visive poste dai più bravi, sappia anche dirigere film con una cifra più personale, ma ribadisco che non stiamo discutendo di qualcuno che si guarda l’ombelico omaggiando film storicamente considerati per nerd mortidifiga.

Per quanto riguarda le critiche sceneggiatura indegna di questo nome, troppo stile per troppa poca sostanza, preferirò sempre una parabola sognante che mi resti impressa nelle retine alla retorica verbalizzata.

Che i ricchi e potenti siano stronzi lo sappiamo già, Miller e Gosling ce lo hanno ribadito seguendo le proprie sensibilità e il proprio immaginario.

La differenza fondamentale è che Miller quel tipo di immaginario lo ha creato lui stesso mentre Gosling è giovane e pesca in un sofisticato immaginario che fa parte della storia del cinema.

Ci sa fare dietro alla cinepresa, traspare il suo amore per una storia e personaggi che lui stesso ha inventato, non scade troppo nell’autocompiacimento da primo film, osa (e tanto) ma può osare di più e dimostrare di avere una sua personalità, giusto per non diventare il Tarantino del gotico suburbano.

Mi sento di dargli una seconda possibilità, sempre che lo tsunami critico non gli abbia tarpato le ali.

Al primo film sa emulare e rimodulare fior fior di artisti e noi gli diciamo no, grazie?

La recensione più ponderata e che condivido è questa.

Difficile, donc, de reprocher à Gosling une quelconque vacuité dans son projet artistique, qui reste à la fois d’une cohérence inattaquable et d’une sensibilité à la fois romantique et fantastique dont on peut difficilement nier la sincérité. 

4 commenti su “Lost river (post-kamikaze con un po’ di Mad Max e Barbara Steele)

  1. Caino
    05/06/2015

    più che a mad max, che trovo citato molto fuori luogo, avrei citato proprio It follows, perchè i due film si compensano e se si potesse ne fare volentieri uno unico.
    Se il secondo non incastra l’atmosfera, non mette a fuoco “l’istante”, il film di Gosling ci riesce a sufficienza e si lascia scappare un sacco altri chili di atmosfera e mood senza accorgesene. O forse se ne accorge ma come ogni buon ricco sperpera per suscitare invidia. It follows invece ha la sua trametta ansiosetta e misteriosa, mignon ma funzionale.
    Il problema in sostanza è che Gosling come scrittura è sul penosetto andante.

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  2. Lenny Nero
    05/06/2015

    Il post è chiaramente (?) una trollata. Ho visto il film di Gosling due volte e ho notato anche difetti di sbrodolamento in fase di montaggio in più di una scena, inoltre il ritmo è ipnotico/autistico, a me piace molto, ma per esempio alla fine marito mi ha fulminato con lo sguardo. È vero che It follows è paragone più azzeccato, ma è lì che si doveva intuire che la stavo sparando grossa apposta per sottolineare critiche a Lost River che a mio avviso non colgono proprio i suoi difetti evidenti, trascurando i pregi e che per qualche motivo che mi sfugge sembravano attacchi a Gosling. Forse invidia per la Mendes? Detto questo ho pesato i pregi più dei difetti. È un film molto slabbrato, per la trama sempliciotta che ha, ma stroncare tutto è azzardato/un peccato. Ho amato la fotografia, la colonna sonora, intere scene, la Hendricks. E su Debie almeno nessuno ha avuto da ridire: era impossibile.

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  3. Caino
    05/06/2015

    Non ho intuito l’animo troll del post, quanto più una serie di osservazioni sul salvabile che sostanzialmente mi trovano d’accordo. Ho guardato il film giusto per Gosling e perchè mi è caduto l’occhio su questa recensione [non abbiamo gusti simili, ma stranamente guardiamo spesso gli stessi film] e l’analogia con il film di cui hai scritto prima l’ho trovata molto più potente.
    Neanche io lo stroncherei ma consiglierei a Gosling di tornare a leggersi qualche classico della letteratura, di tornare ad appassionarsi alle storie, alla narrazione nuda e cruda, perchè ha dimostrato di saperle mostrare ma non di saperle raccontare.
    Un vero troll non si sarebbe risparmiato dal biasimare Gosling per non essere sbucato davanti alla cinepresa neanche in un cameo [ok, se l’ha fatto mi ero addormentato].
    Bella frè.

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  4. Lenny Nero
    05/06/2015

    un vero gay come me lo avrebbe notato un cameo di Gosling, quindi no, non l’ha fatto. Ma forse è ancora traumatizzato da Only god forgives. (Non si è notato lo spirito troll? Neanche nella parte in corsivo? Gesù, sto perdendo colpi su colpi, mi sto mereghettando!).

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Questa voce è stata pubblicata il 28/05/2015 da in Cinema, recensione con tag , , , .

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