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Peace is for pussies

The witch: a New-England Folktale

thewitchNon è così facile spiegare perché, dal proprio punto di vista, un film come The witch sia a pieno titolo un film horror, e di quella tipologia di horror di cui il cinema ha bisogno come un antidoto, soprattutto quando metà del pubblico medio americano, curiosamente vista l’ambientazione, l’ha etichettato come not scary dimostrando un’adamantina abrasione dei lobi frontali causata da anni di torture porn e giostre paranormali di cui ne ho pieni gli zebedei solo a sapere che esistono, continuano a venire prodotti e continuano a incassare.

E’ anche vero che The witch non è semplicemente un horror, ma chi può definire con matite da geometra del catasto i confini dell’horror e non tenere in considerazione che possa apparentarsi con drammi e tragedie?

Estendendo il discorso al campo letterario, non potremmo ascrivere al genere Tieste di Seneca o Tito Andronico di William Shakespeare?

Invece pare numeroso il branco di consumatori di film horror ineducati ad avvertire paura e brividi veicolati da film che stritolano i loro protagonisti, simbolo della condizione umana, fino a farli sanguinare.

A volte sospetto che si tratti di timore di uscire dalla sala cinematografica con sensazioni, turbamenti e dubbi duraturi che non si esauriscano con l’ultimo popcorn.

Paura di portare a casa la paura e l’orrore. Un paradosso che ha senso solo per chi usufruisce di giocattoli horror.

E’ una posizione che sostengo da tempo, carburata da pochi film recenti nell’era post-Martyrs, che non ambisce a far rivalutare l’horror in sé e per sé come genere esente dalle trappole del mero intrattenimento, ma a far rivalutare e diffondere, anche tra coloro che di solito evitano l’horror a prescindere, film che potrebbero/dovrebbero guardare (The invitation è un esempio recente così come Goodnight mommy o The Babadook) e a smussare angoli di natura differente in chi sembra essere convinto, forse con la protervia del quindicenne mai cresciuto, che l’horror sia solo (neanche soprattutto) goosebumps.

Anche se per quest’ultimi temo ci sia un problema generale e generazionale di refrattarietà cerebrale, di ADHD e di sensibilità.

Inoltre The witch, proprio come alcuni dei film sopracitati, punta a far provare dolore più che terrore e a descrivere il percorso di fratture mentali nell’io e nelle forme mentali, in particolare derivate da un rigido credo religioso, una differenza peculiare e fondamentale che lo distanzia da Il crogiuolo di Arthur Miller, qualora qualcuno (non del tutto a torto) potesse pensare che Miller aveva già detto tutto quello che c’era da dire.

Il regista e sceneggiatore Robert Eggers, nutrito dalla sua esperienza come costumista, scenografo o direttore artistico, ma con alle spalle solo un paio di corti ispirati a Poe e ai Grimm, narra di aver trascorso un lustro a studiare i dettagli per costruire il mondo di The witch, al fine di renderlo il più fedele possibile al New England della prima metà del 1600 in termini di ambientazione, costumi e persino dialoghi, costruiti su stilemi linguistici e diari dell’epoca.

Questa precisione nell’imbastire l’impalcatura (anche se ho letto onniscienti fare le pulci al modo in cui è tagliata la legna e al numero di bottoni presenti sui vestiti, dettagli che non inficiano la visione perché li nota solo il superesperto di turno) non è pretenziosità, ma deriva sia dalle passioni professionali di Eggers sia dall’obiettivo preciso che si è posto con il suo primo lungometraggio: calare lo spettatore nel sistema di pensiero dei personaggi e costringerlo a comprendere le loro prospettive, per quanto assurde, conducendolo a cogliere le affinità coi giorni nostri (le conseguenze della mentalità patriarcale non si sono di certo dissipate) e a empatizzare con gli sventurati.

Corruption, thou art my father!

William (Ralph Ineson) è un puritano cacciato dalla sua comunità in quanto trasgressore di regole mai esplicitate e verso tale accusa William risponde che coloro che lo giudicano sono falsi cristiani.

Con il suo atteggiamento intransigente William costringe la sua famiglia (moglie e cinque figli) a isolarsi in una fattoria ai margini del bosco creando involontariamente le condizioni psicogeniche per un dramma, condizioni ambientali a cui si somma il suo indottrinamento, oltre i limiti del lavaggio del cervello, in particolare del figlio Caleb, indottrinamento fondato su un concetto di peccato primigenio così pervicacemente reiterato che diventerebbe l’incubo infantile di qualunque bambino.

Isolamento, una coltura di grano che marcisce, lo spettro della fame e il trauma della scomparsa improvvisa dell’ultimo nato sotto gli occhi di Thomasin, la figlia maggiore.

Senza che ci sia tempo per registrare l’evento la camera s’inoltra nei boschi seguendo una figura ingobbita vestita di un mantello rosso e a pochi minuti dall’inizio del film siamo già immersi nella malvagità demoniaca tanto temuta dai puritani.

Un coltello che affonda nelle tenere carni, un corpo macilento che ne usa le viscere maciullate per lubrificarsi, la preparazione rituale di un bastone e una sagoma ripresa di spalle che s’innalza verso una Luna enorme e irreale: la strega dei boschi esiste.

E’ un dato che in The Witch viene stabilito fin da subito e ne delinea la progettualità retrostante e la chiave di lettura, perché se da un parte è chiara la natura maligna del soprannaturale, dall’altra nel corso del film, avendo a mente questo, ne sapremo pesare meglio il ruolo nelle vicende e scommettere su quanto potrà influenzare un processo di collasso famigliare inevitabile (o su quanto il dolore che distrugge una fede possa generare mostri che non hanno alcunché di soprannaturale).

Questa inevitabilità è il sapore principale del film, un’amalgama di cui componenti fondanti sono la colonna sonora di Mark Korven, in parte realizzata con strumenti dell’epoca, disseminata d’inquietudine, archi in dissonanza e vocalizzi sabbatici, e l’eccezionale fotografia di Jarin Blaschke, una carezza cotonata per il nervo ottico per la sua obiettiva bellezza, tra colori terrei o saturi scarsamente contrastati o sbalzati dallo scontro tra luci e ombre generate da candele (che sostengono la ricerca di Eggers di una palette pittorica da artista olandese del ‘600, superando di miglia il lavoro analogo operato da Michael Goi per la serie televisiva Salem) o dalla luce lunare che getta un’aura fuligginosa e letale sugli esterni.

Un’immagine in particolare, la proiezione distorta e bestiale di un’aspirazione brutalmente troncata di maternità, unica significatività nella propria esistenza, penso che possa restare impressa diversi giorni dopo la visione del film.

Il budget da più di tre milioni di dollari non credo sia stato speso tutto in camera e lenti ad alta sensibilità, ma l’uso che ne viene fatto e il risultato ottenuto, che ambisce a rivaleggiare nei contenuti con Las pinturas negras di Goya tinteggiandole in modo peculiare per il film, è una delle operazioni artistiche più ammirevoli e pensate degli ultimi tempi, funzionale all’opera, senza fini di autoesibizionismo e mai una traccia di autocompiacimento.

L’atmosfera di inevitabilità è alimentata anche dalle assenze della colonna sonora, quando questa lo diventano i suoni della natura, delle bestie allevate, le urla dei personaggi che ben presto lottano contro la paranoia che mette in crisi il patto con il loro dio.

Ogni sciagura o piccolo evento è letto e filtrato da un’ottica religiosa manichea fino a che la fede, fonte di speranza, mostra anche l’altro suo volto, quello della follia cieca.

Wouldst thou like to live deliciously?

Thomasin (Anya Taylor-Joy, luminosa, istrionica, caparbia), ormai prossima alla pubertà, conduce una vita da serva ubbidiente, sgridata senza motivo per colpa dei due piccoli fratelli gemelli (che raccontano di parlare con un imperioso capro nero di nome Black Phillip e black star del film), oggetto di sguardi peccaminosi da parte di Caleb, con una tempra ribelle per l’epoca, quando a noi sembra solo adolescenziale, di animo affettuoso ma con una mente attenta che le consente d’inquadrare lucidamente le dinamiche famigliari, sapendo così rinfacciarle all’ipocrita e spesso bugiardo padre al momento, tuttavia, meno opportuno. Thomasin è destinata a diventare come la madre Katherine (Kate Dickie), donna definita proprio dal suo ruolo di madre e moglie, mentre Thomasin si trova in quell’età in cui potrebbe ancora compiere scelte differenti, se queste le venissero offerte. E sappiamo che in mezzo ai boschi esiste un’opzione.

Caleb (Harvey Scrimshaw, anche lui semiesordiente e un talento naturale nell’interpretare un bambino troppo piccolo per sobbarcarsi il peso di desideri peccaminosi e timori di punizioni infernali ma anche troppo intelligente per non essere divorato dai dubbi) è l’erede del patriarcato, e il suo ruolo, benché dominante in potenza, non è meno programmato e gravato di aspettative di quello della sorella, ma con una grande differenza: il corpo della sorella sta cambiando e il corpo di una giovane donna è destinato a mercimonio e matrimonio per il bene della famiglia.

Dopo un evento pivotale le collisioni fra minacce ambientali, aspettative personali e difficoltà a mantenere salda la propria fede di fronte ai traumi arrivano a destinazione e The witch diventa non un prevedibile film sulla lotta contro una strega ma sulla possibile creazione di una strega.

Il ruolo da capro espiatorio rivestito da Thomasin fino a che punto può spingere la sua psiche alla remissività o alla ribellione, in particolare in un contesto in cui le persone credono davvero nell’esistenza non solo di un dio ma del suo contraltare?

Il pervertimento della psiche infantile è illustrato in una sequenza così angosciante da lasciare senza fiato: un’intera famiglia disperata e china su un suo membro febbricitante, prossimo alla morte e obnubilato da visioni di Gesù Cristo, descritte con parole dai tratti omofilici e macabri che potrebbero essere suggerite sia da una creatura sensuale che ha incarnato desideri ingestibili sia da una fede esaltata, mentre intorno a lui i parenti crollano sotto l’isteria.

E’ una sequenza così carica di dolore, realistica pur nella sua esasperazione, come se trasparisse l’implosione emotiva e mentale di tutti i personaggi, da far raggelare lo spettatore senza bisogno di teste che girano od oggetti volanti.

I pianti, le urla dei gemelli che affermano di non ricordare le preghiere perché stregati, la reazione di Thomasin, proprio mentre si sta verificando uno degli eventi più traumatici, crea un vortice di caos umano in cui tutte le emozioni negative si concentrano.

Che cosa esiste di più orrorifico di una sensazione di tragedia imprevedibile, definitiva, ormai irrecuperabile?

Quella sequenza, con le sue parole, con le sue immagini crudeli, è più potente di qualsiasi esorcismo visto sugli schermi e se restate impassibili a un giro da un analista ci penserei.

L’approccio di Eggers verso i personaggi è anche diametralmente opposto a quello che avrei io, a freddo e razionalmente: non giudica, osserva, non giustifica ma sembra provare pietà per questi umani lacerati, riuscendo a porsi dal loro punto di vista, non spettacolarizzando il loro dramma ma restituendocelo in tutta la sua intensità, anche grazie a un cast ispirato che sembra davvero posseduto.

Wouldst thou like to see the world?

Non voglio soffermarmi troppo sugli eventi perché bisogna viverli, come Eggers riesce a farli vivere, e farsi sorprendere da un finale in cui non si riesce più a distinguere il reale dall’irreale, perché in un sistema di fede è una differenza che si perde, e in cui tutte le scelte possono ancora essere compiute.

Scelte che dopo il disastro potrebbero essere persino facili.

Se finalmente qualcuno, fosse anche il demonio in persona, vi offrisse un mondo da scoprire, libertà, risate, piaceri, ma soprattutto se dopo anni di scelte coatte e imposizioni indiscutibili, dopo aver vostro malgrado assaggiato il sapore del sangue e della violenza, qualcuno finalmente vi chiedesse semplicemente E tu? quando nessuno ha mai pensato di tenere in considerazione i vostri desideri sulla vostra stessa vita, resistereste fino a soccombere in preda al delirio o abbraccereste il riscatto da un ruolo legato al sesso che la società v’impone, danzando col diavolo nel pallido plenilunio?

Per approfondire vi rimando direttamente a questa intervista al regista.

 

2 commenti su “The witch: a New-England Folktale

  1. psichetechne
    19/04/2016

    Come al solito notevole recensione. Purtroppo non trovo più il tempo di scrivere sul mio blog (maledizione): il troppo lavoro me lo impedisce. Ma il film lo vedrò di sicuro. A presto.

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  2. Paolo
    04/06/2016

    Ciao Lenny Nero, è il mio primo commento sul tuo blog, ma ti seguo da tempo e voglio ringranziarti per le ottime recensioni; visto the vvitch ieri sera e sono rimasto colpito anch’ io dall’ attenzione a creare un dramma familiare/sociale spaventando molto di più nell’ animo che centinaia di ultime produzioni “horror”.
    Una boccata di ossigeno ogni tanto (anche “the invitation” visto con mia moglie che non è appassionata a certe visioni ha dovuto ammetterne la buona fattura).
    A presto
    Paolo

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Questa voce è stata pubblicata il 18/04/2016 da in Cinema, recensione con tag , .

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