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Peace is for pussies

Il filo nascosto

ilfilonascosto “Fu come scoprire che i tuoi più intimi ardori e timori, le cose che credevi che nessun altro potesse comprendere, erano in realtà la base di una filosofia condivisa. Una parte di te si sentì invasa nell’intimo, minacciata; un’altra parte cadde in ginocchio e singhiozzò per la gratitudine di non essere più sola”.
― Poppy Z. Brite, Exquisite Corpse

Il filo nascosto costituisce uno di quei rari casi per cui la parola capolavoro può essere usata senza la preoccupazione di sembrare esaltati o ruffiani prezzolati.

E’ uno di quei film su cui si potrebbero scrivere numerose tesi da prospettive differenti e qualunque articolo leggerete in merito ne descrive qualche sfaccettatura senza mai renderne appieno la perfezione.

Multiforme ma cesellato, quanto un vestito sartoriale ideato dal protagonista Reynolds Woodcock, è un film cucito addosso ai protagonisti che nell’immediato può lasciare ipnotizzati e storditi, attratti ma spaventati. Appena uscito dalla sala l’ho superficialmente considerato un character study per timore, non troppo inconscio, di riflettermi in Reynolds o Alma, e per indole sono affascinato dai personaggi respingenti, non empatici o nei quali avrei paura di trasformarmi.

Tuttavia Il filo nascosto, rifuggendo dalla concezione Disney d’una relazione romantica, costringe lo spettatore ad ammettere una verità che tutti custodiamo intimamente: l’amore è fondamentale per una relazione, ma altrettanto lo è la condivisione dei buchi neri.

Si tratta di un tipo di cinema che amo particolarmente, quello dalla confezione estetica ammaliante ma genuflessa alla storia (quindi sono assenti tecnoatletisimi con cui il regista lucida il proprio ego o riempie la bocca dei critici) e nello stesso tempo per nulla rassicurante (ecco perché considero The witch e Sauna i due migliori drammi horror dell’ultimo decennio e, per esempio, Borja Crespo, il regista di Snuff 2000, su Twitter ha descritto questo film come una storia d’amore raccontata come un horror, in cui aleggia costantemente la morte).

E’ un film che sfugge ai filoni, alle mode, alle tendenze, alla politica corretta e scorretta e, più di The Master, ci conduce lungo i percorsi di una folie à deux amorosa, scegliendo per i protagonisti i colori, i suoni, le parole e persino i sapori più appropriati, con un’apparente disinvoltura nel narrare la complessità che di questi tempi è segno di un talento rarissimo.

Reynolds e Alma sembrano altro da noi, vividi e vitali come sono non assomigliano ai personaggi-specchio di Kubrick, eppure in quella coppia hitchcockiana (lui Norman Bates funzionale, lei con lo stesso nome della moglie di un regista che avrebbe voluto esserlo uno scapolo impenitente) intercorrono, esasperate, dinamiche ricorrenti in tutte le coppie più salde, sebbene il loro rapporto assomigli a un patto di cannibalismo gioioso, fra un hungry boy e un’inaspettata hungry girl che non sarà l’ennesima vittima di un rito alimentare consolidato negli anni.

Molti hanno usati termini quali controllo e sottomissione, spinti anche dall’atmosfera a tratti claustrofobica corroborata dallo sguardo severo di Cyril (Lesley Manville), la sorella di Reynolds, paragonata a Miss Danvers di Rebecca – La prima moglie.

Preferirei riconoscere un processo di compenetrazione reciproca che sicuramente richiede qualche forzatura, qualche strappo, qualche aggiustamento, a rischio di perdere l’equilibrio, ma proprio per trovare l’incastro giusto, tirando tutti i fili fondamentali di quella trama nascosta che alla fine consolida il rapporto fra due persone, un rapporto che sarà unico, come quei messaggi nascosti da Reynolds tra le cuciture dei vestiti.

E se è vero che il film nella parte centrale descrive l’apice della costruzione di questo vestito di coppia, quando i due si prendono le misure durante una cena a un passo dall’omicidio, in cui le paranoie reciproche vengono anche reciprocamente svelate e umiliate, quello che ne segue è l’assurdo peculiare di ogni coppia riuscita, quell’assurdo che solo ogni coppia può davvero comprendere.

Inoltre l’aggressività verbale di Reynolds (da cui ruberò nei prossimi anni almeno un paio di frasi ad effetto di crudeltà borghese) e l’austerità di Cyril (madre surrogata in perenne sostituzione con surrogate minori) lasciano comunque emergere ondate d’ironia e sarcasmo che rendono il contratto tanatologico fra i protagonisti un gioco non dichiarato e alleggeriscono il film di ogni gravitas, strappando in più di un’occasione risate spassionate. Schermaglie d’amore mortali, ma pur sempre schermaglie (nessuno mi toglierà dalla testa che nella scena del tè non richiesto Vicky Crieps abbia avuto serie difficoltà a non esplodere a ridere).

La grandezza de Il filo nascosto sta proprio nel riuscire a raccontare quel che è quasi impossibile raccontare, nell’avvicinarci a sensazioni e sentimenti che sullo schermo risulterebbero ineffabili e incompleti, ma P. T. Anderson aveva le idee così chiare che è sufficiente riguardare la sequenza pivotale della cena preparata da Alma. Avrebbe potuto girarla Ingmar Bergman, quando faceva dialogare senza parole Maria e Karin in Sussurri e grida, se solo non fosse stato così intossicato dalla malinconia. Vicky Crieps è immersa in un’atmosfera rarefatta e venefica che la rende vacua come un fantasma e sono sufficienti gli scambi di sguardi fra lei e Daniel Day-Lewis per descrivere l’intera stipula di un contratto. Gesti e movenze, nessuna parola fino all’espressione verbale, quasi inutile, di un consenso a uno stato continuo di belligeranza.

E’ in sequenze simili che il regista si nasconde sebbene sia onnisciente e in quest’occasione pure carceriere supremo del panopticon essendo incidentalmente responsabile anche della fotografia, e non riesco a immaginare risultati visivi più a fuoco.

Non c’è una scena che sia lunga più del dovuto, non c’è una scena in cui i dettagli siano fuori posto (persino la straniante e variegata colonna sonora di Greenwood è intessuta perfettamente in ogni scena eppure, privata delle immagini, sembrerebbe quasi inadatta, ma è in questi dettagli che si nasconde il genio), non c’è una scena in cui la coreografia dei dialoghi non sia sopra le righe e al contempo la più efficace.

Tra una bobina e l’altra P. T. Anderson ha inserito un fotogramma con su scritto never cursed e questo film resterà nella nostra memoria per decenni.

Propongo:

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Questa voce è stata pubblicata il 28/02/2018 da in Cinema, recensione con tag , , .

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