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Peace is for pussies

Hereditary

hereditaryParte 1 – Il film

I film horror che considero tra i migliori degli ultimi anni, e anche di sempre, ruotano intorno alla paura ancestrale per eccellenza, quella della morte, la propria o dei propri cari, e dei sensi di colpa che nascono in chi resta.

L’elaborazione del lutto, anche della propria persona (Thanatomorphose come paradigma estremo), inevitabile quando perdere un amato è come un’amputazione, ma anche metaforica nel senso di cambiamento e crescita, è una delle fasi della vita che costituisce una svolta, verso il baratro o la sopravvivenza, ponendoci in una situazione di disagio, pericolo, disperazione o follia.

Si tratta di emozioni profonde, che lasciano tracce e difficilmente ti lasciano del tutto, e per questo ritengo che i film che le affrontano sono anche quelli che ricorderemo, perché all’intrattenimento fuggevole sostituiscono una seduta psicanalitica, non sempre catartica, che costringe lo spettatore ad affrontare i peggiori fra i demoni.

In Hereditary convivono due anime, spesso litigiose e, purtroppo, la mia preferita proprio nella conclusione non prevale del tutto (se no credo che avrei pianto, di commozione e di gioia cinefila): l’anima empatica e drammatica che dipinge, con un preciso progetto artistico, un racconto metaforico e soprannaturale su una famiglia spezzata dai lutti, ma anche dalla violenza inaudita di passate dinamiche famigliari, e un’anima che sfrutta cliché, e qualche concessione di troppo allo spettatore poco attento, inciampando in errori narrativi e di contenuto che posso perdonare giusto a un esordiente che per tutto il film dissemina talento (e anche un po’ di autocompiacimento), ma forse ha ceduto al timore di non essere abbastanza esplicativo, quanto evocativo.

Impossibile commentare nel dettaglio i contenuti per evitare gli spoiler e nel caso di Hereditary sarebbero criminali.

La struttura narrativa richiede pazienza allo spettatore (non aiutato da un ritmo spesso monocorde e che nell’ultima mezz’ora non crea un vero precipitare degli eventi) perché per la risoluzione del mistero, che si chiude solo negli ultimi minuti, dissemina per ben due ore dettagli, indizi e piste false quanto essenziali per scolpire i protagonisti (che emergono soprattutto grazie all’interpretazione ben equilibrata degli attori, in particolare da una parte un’isterica e irritante Annie, interpretata da Tony Collette, miniaturista che dopo anni dal tragico decesso di un fratello deve affrontare quello di una madre con balzani progetti per l’eredità da lasciare, dall’altra il quieto rancore custodito dal marito interpretato da Gabriel Byrne, che nei suoi silenzi di fronte a quello che ritiene un crollo psichico della moglie è il migliore).

I protagonisti non sono mai i motori degli eventi, se non involontariamente, e solo procedendo con la visione capiremo fino a che punto, ma li subiscono e il punto di vista dello spettatore è il loro, perplesso, addolorato, e via via più angosciato e frammentato da episodi di cui non possono cogliere il significato.

Annie combatte dolore, sospetti e rivelazioni assurde attraverso l’arte: gli splendidi diorami che realizza (opera di Steve Newburn. Potete riammirarli qui, ma se non avete visto il film ritornateci) le servono per cristallizzare il suo vissuto, sentirsi in controllo della sua vita ma dalla loro visione trapela di più: ricordi seppelliti nell’inconscio che emergono durante episodi di sonnambulismo (che nel post-visione comprendiamo quanto fossero atti disperati di ribellione) e fonti di scene inquietanti che avrebbero fatto cadere Freud dalla sedia (la madre anziana a seno scoperto che vuole allattare la nipote in braccio alla figlia), per non parlare della celebrazione da pelle d’oca del momento più tragico e macabro della sua vita.

Anche la figlia tredicenne, Charlie, dal volto peculiare di Milly Shapiro, realizza composizioni artistiche) ma la componente organica di quelle che nasconde alla vista dei familiari farebbe brillare gli occhi solo a Jeffrey Dahmer e sono la manifestazione di un malessere più pervasivo di quanto s’immagini.

A chiudere il quadro del dolore, il fratello di Charlie, Peter (Alex Wolff, in grado di reggere minuti di primo piano nella scena più scioccante del film).

Intorno a questo circo famigliare ruotano come avvoltoi vampiri di disgrazie, incidentali comparse che tutti possono conoscere in certi frangenti, concimando solo il terreno della progressiva rottura della psiche di un’intera famiglia.

Senza l’anima che guarda all’intrattenimento Hereditary potrebbe essere un dramma della follia che nasce da lutti, segreti terrificanti e nevrosi irrisolte che culminano in psicosi, in cui i colori che illuminano la quasi costante atmosfera lugubre e irreale rappresentano stati e stadi psicologici (il blu-e- di Annie, l’arancione di Charlie, il rosso rabbioso che tiene sveglio Peter…), sottolineati dalla colonna sonora lisergica di Colin Stetson che sembra composta da un elettrocardiografo tanto senziente quanto malfunzionante, quando non si apre ad archi ariosi che suonano sarcastici, e incorniciati dall’occhio fotografico di Ari Aster, che ha un gusto visivo tra Hopper e Lynch (con risultati pittorici merito anche di Pawel Pogorzelski).

L’anima contenutistica sabota il film in un paio di occasioni fondamentali rendendo prevedibile un evento centrale (e comunque mi sono portato le mani alla faccia, ma ho goduto a metà) o verbalizzando troppo alcune spiegazioni, fatto che non rientra nella logica a me gradita di allestire una situazione ingestibile, incomprensibile ed eterodiretta di cui i protagonisti sono vittime assolute.

Ari Aster non è Shyamalan, e non ci offende con una ripresa visiva di dettagli e frasi precedenti, ma espande concetti già espressi sottraendo mistero e tragicità al finale, che sarebbe potuto essere dolorosissimo con una più estesa ambiguità.

Per chi l’ha visto, immaginate la sequenza conclusiva immersa solo nel silenzio, una collezione di sensazioni d’orrore e stupore in cui il senso di colpa viene trasfigurato nel sentirsi incoronato come male assoluto, perché solo sentendosi tale una persona può accettare di essere stata concausa di tanta morte (amo questa chiave interpretativa). Invece subentrano echi polanskiani che aumentano il senso del grottesco scatenando possibili risultati comici. Eppure quella sequenza allucinata potenzialmente era da togliere il fiato.

D’altra parte Ari Aster non sembra portato per scene cariche di dramma, quasi lo imbarazzassero. Preferisce un’atmosfera quasi magica e un ritmo sopito (a tratti, lo ammetto, immotivatamente soporifero) in cui i personaggi galleggiano invece di affannarsi a risalire in superficie, e da buon amante dei film sulle lacerazioni interiori considero per questo Hereditary un film molto elegante, che tratta lo spettatore come persona senziente ed esigente, ma che non offre tutto quello che avrebbe potuto o voluto offrire, ma che dopo la visione costringe a ripensarlo e invoglia a rivederlo per cogliere tutti i dettagli e apprezzarne la struttura. Chi non ama l’attesa, vuole spiegazioni facili e non riesce a destreggiarsi tra il racconto letterale e le allegorie violente sul desiderio di (auto)distruzione (potentissima e insopportabile quella più sanguinosa nel prefinale) sicuramente ne trarrà solo disagio e noia.

Non è un film che imbocca (almeno fino a un certo punto) e non è di facile fruizione, per cui credo che il metascore critico non corrisponderà all’apprezzamento del pubblico se non disposto ad accettare un film che non corrisponde per nulla alla descrizione fattane in molti articoli.

E’ un film su quanto siamo disposti a soffrire o punirci per superare i nostri dolori, portando all’estreme conseguenze questo assunto, e quindi, nonostante palesi difetti, è un’esperienza di livello più profondo che vale la pena fare e sono sicuro che sottilmente ci possiederà nel tempo.

Interviste al regista:

https://www.filmcomment.com/blog/interview-ari-aster/

http://collider.com/hereditary-interview-ari-aster/

Parte 2 – Cari critici, qualche parola di sconforto.

Tralascio la parte in cui dileggio nome per nome i critici, come al solito yankee, che per costruire le loro recensioni le fondano sulla ricerca di paragoni altisonanti e improbabili.

Capisco che attirare click e attenzione induca molti a gettare nelle fogne la loro laurea in cinema e pinzillacchere, ed escludo che certi critici si rechino in sala ubriachi, ma no, Hereditary non è sotto alcun punto di vista L’esorcista delle nuove generazioni, e per fortuna visto quanto reputo esilaranti i film con gli esorcismi, e sarebbe stato sufficiente un lavoro di lettura delle dichiarazioni del regista Ari Aster per cogliere ispirazioni artistiche generiche e riferimenti specifici.

Hereditary per altri è un esempio di quel che ora va di moda chiamare elevated horror.

Mi rifiuto di disseminare link a post che includono questa esplosiva sciocchezza, derivata dall’ansia di discutere della new shit del momento, stabilendo assurde cesure storiche fra un prima e un dopo basandole sulla citazione di pochi film male assortiti, così come detesto categorie che sono puramente commerciali (per vendere articoli e film) e non davvero storiche.

E se proprio voglio dimostrare la solidità dell’affermazione che Hereditary appartenga all’elevated horror, serietà vorrebbe che definissi in modo preciso questa categoria.

Non mainstream? Non à la James Wan? Che include anche discorsi politici? Dalla cornice artistica ricercata? Non per il grande pubblico? Tutto questo?

Non è che stanno solo tentando di vendere film horror a un pubblico snob che fino all’altro giorno scotomizzava i film di genere perché non spendibili in discorsi da salotto e perché intanto il pubblico di Annabelle non potrà mai apprezzare Hereditary fino in fondo?

E’ necessario far calare dall’alto l’aura di autorialità o d’impegno, artistico e politico, conferendogli una patina intellettuale che, cari i miei poser, certi registi non hanno mai avuto bisogno di chiedere perché chi sapeva guardare già la riconosceva senza bisogno di specificare ogni volta “è horror, ma è elevated”?

Per non parlare del fastidio verso chi inizia a interessarsi all’horror, ma solo con i guanti, per carità, e un pezzetto scelto alla volta.

L’horror è un genere così vasto e complesso che o ci si fa fisting fino al gomito o non ne si si seguono più le radici.

E perché le difficoltà a stabilire quando sia nato l’elevated horror, balbettando titoli come The Witch o The Babadook o Get out quando secondo le stesse categorie utilizzate L’ora del lupo di Ingmar Bergman (1967) ne è un perfetto esempio?

Allora perché dimenticarsi di The invitation, It follows o Goodnight mommy?

Se seguiamo la prospettiva dell’alto livello artistico, risalirei fino all’espressionismo tedesco anche se qualcuno potrebbe invece fermarsi prima a Kenneth Anger o ancora prima a Elias Mehrige, anche se per me il primo clamoroso esempio di elevated horror moderno è Sauna, insieme a Martyrs, ma se penso alla prospettiva politica tornerei ai ricordi che m’ha lasciato La casa nera (in pratica il prequel involontario di Get out).

Potrei ovviamente andare avanti per ore e ore.

Ari Aster s’ispira a qualcuno di questi esempi?

Nelle sue dichiarazioni cita i film Greenaway, in particolare Il cuoco, il ladro, sua moglie e l’amante.

Non sono laureato in cinema, forse per questo non devo inventarmi stronzate per pagare le bollette, ma almeno i film (horror) li guardo e li conosco, aiutato anche dall’aver superato i 40 anni, e ritengo che si faccia torto ai nuovi registi a incastrarli in categorie culturali e commerciali, soprattutto quando i miei studi mi dovrebbero consentire l’accesso a un bagaglio di nozioni e interpretazioni più ampio e riconoscere che da sempre l’horror, in varie declinazioni, è stato anche autoriale, politico o morale.

Ma la storia la fanno i vincitori e la sta facendo chi per qualche click in più sta conducendo un superficiale lavoro di cherry picking tra i film horror, senza contribuire di un’oncia a una storiografia seria.

Sì, c’è un vaffanculo tra le righe.

 

2 commenti su “Hereditary

  1. Sàtàn Tangò
    27/08/2018

    Peccato quella seconda parte con la setta patetica altrimenti urlacchiavo alla bombetta horror.

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  2. Lenny Nero
    27/08/2018

    Però se reinterpreti tutto in chiave allegorica/psicologica o antifamilistica tutto ha più senso. Personalmente avrei preferito un’atmosfera più sospesa e allucinata ancora. E teniamo conto che è un’opera prima!

    "Mi piace"

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Questa voce è stata pubblicata il 26/07/2018 da in Cinema, recensione con tag , , .

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