Il problema di questo film è la pretenziosità.
Tratto da un romanzo di un antropologo che scrive horror dal sapore lovecraftiano ambientati in precisi contesti storici, si fa apprezzare per tutta la durata grazie al talento visivo di Gens (che personalmente amo fin da Frontières), uno che ha sempre il pieno controllo sulle scene in termini di ritmo ed estetica, conferendo a più di una sequenza notturna un’eleganza visiva mista a rabbiosità (Ray Stevenson è stata un’ottima scelta di cast) che è proprio quel che apprezzo di Gens.
Per tutto il film, tuttavia, citazioni poetiche e frasi altisonanti lasciano supporre che la situazione uomo senza nome in territorio solitario, ostile e abitato da aggressive creature locali, alle soglie della prima guerra mondiale, costituisca un’allegoria della natura umana, della prevalenza/prevaricazione degli istinti sul desiderio di conoscenza e sull’empatia (“nessun uomo è un’isola”, ma il terrore della solitudine si scontra con terrori più irrazionali), così come una metafora delle colonizzazione o dell’inevitabile arroccamento dell’uomo di fronte al diverso, all’inconoscibile e via dicendo.
Se un film come A quiet place funziona proprio perché stupido e -usa e getta-, Cold skin rischia di deludere perché alla fine resta un’allegoria a dir poco urlata della sindrome d’assedio.
Qualche frase in meno, qualche asciugatura della fonte letteraria di origine, e per un messaggio semplice e leggibile una forma più semplice sarebbe stata più efficace.
Però a Gens piace essere epico e drammatico e ha una visione piuttosto pessimista dell’essere umano, quindi non ha saputo rinunciare all’enfasi.
Senza spoiler: un antidoto a The shape of water.