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Peace is for pussies

Midsommar

midsommarNOTA: recensione via via più ricca di spoiler, quindi destinata solo a chi ha visto il film

Le surréalisme n’est pas un moyen d’expression nouveau ou plus facile, ni même une métaphysique de la poésie; il est un moyen de libération totale de l’esprit et de tout ce qui lui ressemble”. (A. Artaud)

Inutile lottare contro l’inevitabile.

E’ il messaggio esplicito di Midsommar, lo stesso atteggiamento con cui Ari Aster si deve essere coscientemente arreso al fatto che, portando le sue eccentricità all’interno del folk horror, chiunque avrebbe chiamato in causa The wicker man (1973), ma siccome Ari Aster conosce l’horror a menadito, molto più di chi come esempio di folk horror sa citare solo quello, in realtà sembra allestire la parodia di un’involontaria parodia, cioè il remake di The wicker man (2006) –chiunque l’abbia visto ricorda Nicolas Cage vestito da orso in una delle scene più ridicole della storia del cinema.

E’ partendo da questi contorcimenti, tra il cinefilo e lo humour nero, che si può apprezzare e vivere in modo gioioso (ho riso dentro di me per metà film) un’opera che non si sottrae alla possibile accusa di essere derivativo e camp, ma di sicuro non si può accusare Ari Aster di aver puntato solo su formule collaudate per non rischiare il classico passo falso da secondo film.

Perché nonostante non accada nulla d’imprevedibile nelle linee narrative essenziali, il canone è arricchito da almeno due elementi macroscopici che rendono Ari Aster il regista da seguire con più attenzione insieme a Robert Eggers (The witch) (qui un’illuminante intervista condotta tra di loro: https://a24films.com/notes/2019/07/deep-cuts-with-robert-eggers-and-ari-aster)

Il primo è un impianto estetico di prim’ordine, che può indurre qualcuno a etichettare il film come artsy, come se fosse necessariamente un difetto goderne anche nei film di genere, soprattutto dopo l’inestinguibile periodo di mockumentary e film ripresi con le cam.

Non stiamo discutendo di un Refn che è tanto dotato da un punto di vista tecnico-visivo quanto ineffabile e inconsistente narrativamente.

Stiamo discutendo (secondo elemento) di qualcuno che a partire dal suo primo cortometraggio, in cui un figlio abusa sessualmente del padre (https://www.indiewire.com/2018/06/hereditary-director-ari-aster-short-films-1201973245/), narra di famiglie disfunzionali, disturbi emotivi, elaborazione del lutto e ora aggiunge alla sua narrativa i problemi di coppia.

Da un fan fanatico di Bergman era il passaggio inevitabile.

Midsommar è una delle risposte di un’immaginaria Posta del cuore gestita da Ari Aster e sarebbe l’unica che leggerei avidamente, per scoprire le soluzioni orribili che proporrebbe a qualche cuore infranto.

Partendo già da questi due elementi possiamo capire in che cosa consista la sostanziale originalità di Ari Aster.

Mentre guardavo il film, ponderavo il suo ritmo lento ma fluido (i protagonisti sono sotto l’effetto di sostanze stupefacenti di varia natura per quasi tutto il tempo), la precisione millimetrica degli stacchi di montaggio (come per Hereditary, responsabilità di Lucian Johnston) o degli attacchi della colonna sonora (di cui è autore The Haxan cloak/Bobby Krlic, con un risultato meno orecchiabile, invasivo e pervasivo rispetto a quella meravigliosa di Colin Stetson per Hereditary, ma efficace nello stimolare con percussioni e cacofonie sensazioni di sottile malessere), la reinvenzione di costumi russi per cultisti svedesi, in una campagna ungherese, in cui sono stati eretti edifici iperdecorati dal gusto kitsch di qualche latifondiera degli Stati Uniti del Sud che ha respirato troppa new-age, ma che non rinuncia alle sue sedute freudiane (l’architettura vulvare di -quel- particolare edificio è un piccolo dettaglio che risulta geniale quando lo si coglie e meno urlato dei falli floreali disegnati nel dormitorio).

Ammiravo la fotografia morbida e falsamente serena di Pawel Pogorzelski che abbandona la crepuscolarità di Hereditary e fa risplendere ogni colore ed esalta ogni angolo di luce (quasi tutti assenti nel primo atto, quello del lutto), perché orrore e rancore inespressi non possono più nascondersi in piena vista e vanno purificati. Proprio la fotografia contribuisce a creare uno dei tanti contrasti su cui si basa il film e Ari Aster aggiunge pure piccole pennellate pittoriche e artificiose a ogni scena, da un cambio di lente a una luce innaturale che compare sul volto di una vergine seduttrice in corrispondenza di ogni suo passo.

Aster è barocco, bizzarro, senza senso della misura ma anche perfezionista.

Riempie l’immagine fino a che può, ma non c’è mai nulla di troppo o di mancante e nessun dettaglio, anche il più minimo, è gratuito o ripreso solo per leziosità, perché ha un significato narrativo.

Uno degli esempi più evidenti e colto da tutti è la diversa sfumatura del contenuto di un bicchiere che si ricollega alla carrellata laterale di circa mezz’ora prima su una delle serie d’immagini che adornano le scenografie, immagini che anticipano eventi senza svelarli del tutto, evocative ed esplicite, lontane dal criptico simbolo di Paimon che in Hereditary vediamo sin dall’inizio, al collo della protagonista o su quel notorio palo della luce, ma che nessuno, a parte un esperto di demonologia, avrebbe saputo interpretare.

Midsommar è fondato sulle immagini e, mentre gli eventi di per sé sembrano dipanarsi in modo statico, in realtà Aster sta costruendo un microcosmo, sta già narrando e costruendo un terreno mitologico che è esso stesso trama e non solo contesto (il film sarebbe perfetto come pilot di una serie e infatti attendo la più lunga versione director’s cut con curiosità perché dovrebbe contenere più rituali e un approfondimento delle dinamiche fra Dani e Christian).

Tale narrazione prettamente visiva è in opposizione con il prologo.

In questo prevalgono toni anche fotografici realistici e cupi e la narrazione è soprattutto verbale.

In quelle scene c’è tutto quello che serve per capire quello che accadrà nelle due ore successive.

E’ quasi l’unica parte del film in cui i protagonisti si svelano, tramite dialoghi credibili che toccano i punti principali delle problematiche in corso fra i protagonisti.

Non c’è altro da sapere su queste persone, in fondo banali, comuni, largamente stereotipate e di contorno (rientrano nelle figure tradizionali degli slasher), ma in fondo la maggior parte delle persone è davvero così e soprattutto deve spiccare Dani.

Dani è la protagonista, è il fulcro, sono il suo punto di vista sulle vicende e il suo sentire che contano davvero nel precipitare degli eventi. Dani è la bambina che accarezza fiduciosa l’orso nel quadro appeso nella sua camera.

Il prologo non è un gratuito e inutile orpello, ma la chiave di lettura.

Le problematiche familiari di Dani, le vicende tragiche che la travolgono, il suo essere percepita come un peso dallo stesso compagno, il suo essere bisognosa di un aiuto che non sia quello professionale di uno psicoterapeuta ma quello che deriva dal sentirsi protetta e abbracciata, dal sapere di poter confidare in una persona o in un cerchio umano solidale e di supporto, sono le fondamenta di Midsommar.

Dani si scusa, si nasconde per piangere, non affronta direttamente il compagno, inerte e apatico. Lei è remissiva, lui non è la persona adeguata, non necessariamente il compagno peggiore del mondo.

In fondo è tutta qua la fonte del loro dissidio, insieme alla loro incapacità di lasciarsi andare a vicenda.

All’inizio del film viene mostrato una finta pittura murale di Mu Pan (http://www.mupan.com/) di cui comprendiamo il contenuto solo alla fine.

Quell’insieme di disegni narra già tutta la storia e la divide in due sezioni, una sormontata da un teschio e una che si chiude sotto un sole sorridente.

E’ un percorso d’illuminazione.

E Midsommar racconta proprio la presa di coscienza di una dinamica così facile e prosaica da identificare quanto difficile da risolvere, perché ogni rottura di una relazione può essere in sé una tragedia o vissuta come una tragedia, l’emanazione di una sentenza di morte che richiede coraggio finché non s’intravede la possibilità di una rinascita.

Nella casa di Dani sono già disseminati elementi iconografici del resto del film tanto che, ripensando alle parole del regista secondo cui Midsommar è stato pensato come fosse la realizzazione di una fantasia da parte di Dani (http://www.nightmarishconjurings.com/2019/07/03/interview-writer-director-ari-aster-for-midsommar/), e visto lo stato mentale quasi costantemente lisergico dei protagonisti, non è così peregrino il dubbio che forse quello cui assistiamo è più onirico che reale, con tutte le assurdità e i simbolismi che un sogno porta con sé.

O forse che quello che accade è reale ma assurdo quanto un sogno.

Assurdo è un aggettivo che non uso a caso perché l’espressione teatro dell’assurdo viene in mente in più di un’occasione perché Midsommar è spassoso in modo weirdo.

Ari Aster ha un umorismo macabro, grottesco, imbarazzante (sono abbastanza certo che detesti tutti i protagonisti a parte Dani) ed è assolutamente volontario.

E’ un film oltraggiosamente e consapevolmente ridicolo, persino quando sfocia nell’ultragore con quell’ammirazione estatica per il body-horror più spinto (la puntata sull’aquila di sangue di Vikings possiamo pure archiviarla nella cartella Teletubbies) che non vedevo dai tempi della serie Hannibal.

In almeno una scena sarebbe comprensibile ridere sguaiatamente, eppure nello stesso tempo la risata resta a metà, perché è una risata dolorosa, catartica, che porta con sé decisioni che faranno prendere alla vita una svolta radicale, e nello stesso tempo l’estetica del film è così imponente e soffocante che la risata liberatoria s’infrange contro gli stimoli visivi (mi arrederei casa come l’interno della piramide e i miei maggiordomi girerebbero mascherati come l’officiante) e il prevedibile olocausto.

Midsommar, da questo punto di vista, è formulaico, ma si differenzia nella palette di colori ed emozioni che inserisce in canoni ben precisi creando un oggetto unico.

Per certi versi è persino reazionario.

Sembra il film di qualcuno che si è nutrito di film, horror e non solo, fino agli anni ’80 esclusi, poi il cinema di massa è andato in un’altra direzione ma lui scuote le spalle.

Anche se potrei supporre che forse qualche video di Björk l’ha visto, tra orsi e cornucopie floreali.

In questi giorni, soprattutto da parte di commentatori italiani con diversi livelli di preparazione, ho letto atteggiamenti quasi sprezzanti verso un talento tecnico-estetico superiore, riconosciuto come tale perché indiscutibile, e proprio per questo criticabile perché sotto il florilegio non ci sarebbe davvero alcun sortilegio.

Ora, non sono di sicuro il miglior traduttore in pagina dei miei stessi pensieri, ma spero di dare qualche elemento pure ai detrattori (a mio avviso giustificati solo per questione di gusto personale) per non cestinare un film che offre comunque molto e necessita di attenzione, prima di tutto con gli occhi.

I miei hanno continuato a girare su tutto lo schermo a ogni inquadratura ritrovandosi persino soverchiati e da fan indefesso dei film muti avrei pure sfrondato non qualche scena, ma qualche dialogo, lasciando in evidenza quelli più significativi, lasciando non sottotitolate le frasi in svedese, permettendo al subconscio che emerge grazie alle droghe d’invadere ancora di più lo schermo, con solo le urla di gruppo che echeggiano, quelle urla da gruppo d’aiuto in cui più persone si sintonizzano sui sentimenti altrui.

“Do you feel held by him? Does he feel like home to you?” chiede Pelle a Dani, ed è uno scambio centrale molto più del rito che sconvolgerà Dani.

A margine, ricollegate quello che Pelle narra dei suoi genitori al finale e chiudete il cerchio: la vera scelta radicale di vita è la sua e rivela il disprezzo che nutre per persone che considera solo carne da macello di fronte alla grandiosità del suo credo.

Inquietante? Come tutto il fideismo cieco dei culti, ma è quel che compie Dani: un atto di fede verso una rinascita e un’intera rete di supporto. Se sia una scelta tragica anche per lei non è dato saperlo ma poco importa, si tratterebbe di restare ancorati a una lettura da nerd pignolo invece che alla metafora che è il film.

Il gesto di Dani è prima di tutto simbolico, soprattutto del suo sentire: la distruzione dell’unica famiglia rimasta in cui ci si sente ormai trascurati è comunque vissuta come la fine del mondo. Ora però c’è qualcos’altro. Viene sacrificato il mascolino (l’orso) e il femminino se ne distacca ottenendo indipendenza e rivalsa.

E’ quindi presente un lato femminista nel film? Eccome.

Basti pensare al rito sessuale in cui è coinvolto Christian. Come spiega l’attore stesso (https://www.thrillist.com/entertainment/nation/midsommar-movie-sex-scene-jack-reynor-naked) è l’ennesimo uso capovolto di un topos abusato dai film horror: lo sfruttamento, l’umiliazione, l’exploitation di un corpo è ora totalmente maschile.

A margine: ho letto di accuse di abilismo (https://www.theguardian.com/film/2019/jul/10/midsommars-ableism-resurrects-the-dark-history-of-eugenics-inspired-horror-ari-aster) verso il film, ma vorrei ricordare che Ruben il “disabile” (nell’adattamento italiano) è venerato come un profeta e addirittura ricercato, così come le accuse di far cadere nella trappola per primi i protagonisti non caucasici. Peccato che la prima morte eccellente riguardi il più stupido del gruppo e forse bisogna rivedere la scena o pensare al suo stato nel finale: noi non vediamo lui, ma la sua pelle scuoiata usata come costume da un uomo (dallo script si evince che è Ulf).

Forse più aperta la discussione sull’approccio alla rappresentazione di disturbi psicologici (https://www.polygon.com/2019/7/16/20694958/midsommar-mental-illness-stereotypes-bi-polar-disorder-anxiety), ma azzarderei che nel giocare con i topos horror non tutto può essere in linea con canoni più moderni e lasciare più sfumata la condizione della sorella di Dani avrebbe creato meno disappunto.

D’altra parte una compensazione deriva dal fatto che il film e la sua comprensione ruotano proprio intorno all’empatia verso Dani: meno la si prova, più il film sembrerà inafferrabile.

E se non si ha il senso dello humour di Tod Browning lasciate ogni popcorn o voi che entrate.

Fallace, ma divertente l’interpretazione del film “white people are crazies”: https://twitter.com/Danez_Smif/status/1150752541078183936?s=20

2 commenti su “Midsommar

  1. Ho appena dedicato la mia ultima animazione al rito dell’ättestupa presente in questo film.
    Quella scena è memorabile!

    Piace a 1 persona

  2. Sàtàn Tangò
    05/08/2019

    Bellissimi riferimenti. Mi trovo d’accordo. Ciò che mi disturba e allo stesso tempo mi lascia un po’ freddo in questo regista è il suo essere troppo didascalico nell’entomologia dei rapporti umani. Finché ci fa vergognare dei nostri stessi stereotipi va bene, ma nel connotare la nostra stupidità calca la mano in un modo che mi ha anche annoiato. Unico neo oserei dire.

    Molto meglio di Hereditary a mio parere.

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Questa voce è stata pubblicata il 28/07/2019 da in Cinema, recensione con tag , .

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