“CHE COSA SI PUO’ PERDONARE?”
Ispirato a fantasie autobiografiche
ATTO I – FUMI DI RANCORE
Giornata afosa in questa fottuta fossa umana al centro del Texas.
A due isolati di distanza dal distributore di benzina di Jeffrey, accosto al marciapiede la Mustang rosso carminio.
Ha l’apparenza di un meteorite infernale che atterra dolcemente sulla Terra senza indurre sospetti sui suoi intenti esplosivi.
L’acquistai da un rivenditore specializzato con i soldi guadagnati grazie ad un importante progetto di ricerca nel campo della farmaco-genetica; ne mantenni l’aspetto da film on-the-road per non esibirne la struttura interna ed il motore rimaneggiati fin nell’ultimo ingranaggio.
Carriera, soldi, successo, il progresso dell’umanità: a niente di tutto cio’ ho mai attribuito reale importanza ed ho sempre detestato esibirli o dedicarci tutte le mie energie.
Sono entrati nella mia vita come ricompense karmiche non necessarie e non richieste.
A lui invece avrei dedicato la mia parte migliore, quella non ancora rosa dal mio buco nero che con pazienza e sollecitudine avevo tentato di ricucire per riuscire ad amarlo, affinchè non liberassi dalle catene di quella prigione i miei fantasmi rabbiosi.
Jeffrey e’ seduto sulla sedia davanti alle porte a vetri impolverate, lo sguardo perso nel vuoto, avvolto nel fumo di sigaretta che dissolve i contorni marcati del viso.
Un’istantanea in movimento di una carcassa fumante.
Il quadro vivente di un papa-fantoccio suburbano che nemmeno Bacon oso’ dipingere.
Mi accerto che da quella distanza non mi veda e mi appoggio allo sportello dell’auto con gesti silenziosi.
Chino la testa tra le mani, giunte come in rancorosa preghiera, per accendermi una sigaretta: il vento mi soffia a singhiozzi negli occhi, irritandoli con frammenti infuocati di asfalto; le spalle, muscolose e tese, tirano la camicia che si attacca al mio corpo su cui scorre impietoso il sudore.
Esaurite le lacrime, al mio fisico non resta che sfogarsi in quel modo per grondare delle tossine accumulate negli ultimi giorni.
Accavallo le gambe ed espiro una lunga boccata di fumo che mi arde in gola, quanto le sue ultime parole mi cauterizzarono le orecchie.
Lingue di fuoco avvinghiano le pompe di gasolio; Jeffrey è impassibile, sembra non accorgersene, e mentre iniziano a intrecciarsi intorno a lui una voce distorta fa riecheggiare nell’aria quelle staffilate verbali, quelle menzogne contornate di stridore di unghie su specchi ormai rotti, come se declamasse i motivi della sua condanna.
Ho piegato il mio orgoglio monolitico nel tentativo di recuperare il nostro amore appeso a un baratro, un tentativo inconsulto dovuto alla speranza non di porvi rimedio, ma di scrivere la parola fine insieme, in modo civile, in nome di un affetto ancora immaturo, ma forte, in nome di quella dolcezza che involontariamente mi aveva donato.
Oh, se fu una deludente perdita di tempo provare a discutere con chi è in preda ad un permanente stato confusionale in merito ad una questione su cui ci si dovrebbe sforzare di acquisire nitida chiarezza: i sentimenti.
Troppi fantasmi passati da dimenticare, troppe paure abusate come alibi per giustificare lo stillicidio di ricatti morali, di pretese senza fondamento e il dover sopportare le numerose attenzioni di altre persone da cui ricevere qualcosa che assomigliasse all’affetto, perché una sola fonte non placava ancora la sua sete.
Ho dovuto lottare e reagire con fermezza per salvaguardarmi, contro il suo progetto di ammorbidire i miei spigoli, per ridurmi a prigioniero, invece che farmi assurgere a compagno; non volevo rinunciare, non volevo tirare i remi in barca come un mozzo codardo, ma di fronte alla sua insistenza di incastrarmi in una forma d’acciaio, cui il suo ipotetico partner avrebbe dovuto adattarsi, i miei nervi sono esplosi.
Non si puo’ accettare l’esasperazione quando si viene ammantati da uno strisciante dolore per una persona che non ci ama per quello che siamo, in tutto quello che siamo, e gioca la carta dei tuoi sentimenti per metterti in ginocchio; non si puo’ non sentirsi di nuovo disperati quando questa persona libera giorno dopo giorno le nostre negatività, trasformandoci in un vaso di Pandora che si rompe in mille pezzi dopo che è stato gettato con violenza per terra.
Soprattutto non si puo’ non reagire quando un sentimento, chiaramente, dignitosamente ed affettuosamente espresso viene calpestato in modo impunito, non essendo stato compreso che abbiamo tollerato per mesi le insicurezze, i timori ed i pensieri ondivaghi dell’altro perché accettasse di essere amato.
Ed invece di accettarlo, di ascoltare, di scontrarsi per appianare le forme di una scultura ancora imperfetta, corre tra le braccia di chi non ha il coraggio di metterlo a nudo, se non per regalargli spento e gratuito sesso.
Che deboli i tuoi sentimenti, che tanto hai propagandato, se sei riuscito a trovare consolazione rapidamente tra altri sorrisi, devoti e desiderosi, usando un altro individuo per risentirti forte dopo che io ti ho indebolito; ed ora che soddisfazione ti regala quel palliativo?
Diventa impellente il bisogno di un sussulto.
Una volta messo il cuore a nudo, ce lo siamo strappato da dentro; dopo, rimetterlo a posto è faticoso.Stasera superero’ il mio orrore e la mia resistenza a farmi toccare da un altro uomo che non sia tu.Tra poche ore dimostrero’ a me stesso che eri solo un corpo vivificato da un’anima debole e da una mente ancora piu’ fragile.
ATTO II – HEARTBROKEN FISTER
Il ragazzo è riverso di schiena sul mio letto, con i lombi sollevati, appoggiato sulle ginocchia.
Tiene fra le dita una piccola confezione di nitrito d’amile da cui aspira per superare la paura e rilassarsi, rigirandolo lentamente come un rosario a cui chiedere pietà.
Osservo i suoi muscoli dorsali, il modo virile, ma sensuale con cui muove quasi impercettibilmente il corpo come ad invitarmi ad entrare in lui, anche se questo significasse lacerarlo.
Il vetro della finestra aperta mi rinfaccia la mia immagine, distorta dalle luci dell’impianto petrolifero che domina in lontananza il mio quartiere: sono nudo, lo sguardo vuoto e rabbioso come quello di Caronte che si appresta a traghettare a casa il prossimo morto, i bicipiti contratti e gonfi di violenza mentre vesto la mia mano destra di un guanto che aderisce perfettamente a quello strumento naturale di sottomissione.
E’ un gioco, solo un gioco fra adulti, che non cercano sesso, ma compensazione.
Non so quali bisogni voglia appagare questo ragazzo, pur così amichevole e dolce nei preliminari, ma mi ha richiesto esplicitamente, con lo sguardo innocente di un bambino masochista, di porlo in quella condizione di castigo volontario, per placare i suoi ardori mal vissuti.
Ed io perché accetto?
Stringo con tutte e due le mani i suoi glutei e vi affondo le labbra in mezzo, mentre con la lingua esploro e solletico le pareti del suo inferno personale.
Faccio scorrere la mano sinistra sulla sua schiena, verso il basso, voluttuosamente, incitandolo a fidarsi, fino ad appoggiare il pollice sullo sfintere; avverto il tepore della vasodilatazione, la resa della muscolatura, gli spasmi di trepidazione per l’attesa di un ingresso piu’ importante.
Spremo un tubetto di lubrificante dentro il guanto per poi spalmarlo rumorosamente: voglio che senta che mi preparo, non deve udire parola da me, non deve sapere quando iniziero’ se non quando avro’ già dato avvio al nostro spettacolo privato.
Infilo l’indice ed il medio in modo deciso dentro di lui; la sua schiena si contorce in un brivido di piacere e fastidiosa sofferenza ed io continuo a penetrarlo con le dita fermandomi a metà.
Le estraggo fuori, chiedendogli divertito e beffardo se stia bene, e con voce lamentosa e goduta mi sprona a continuare.
E’ il segnale di via libera.
Immergo le dita, supero il margine anale e tocco il fondo rigirandole, mentre il suo canale non puo’ far altro che allargarsi e contrarsi ritmicamente.
Stantuffo senza sosta il mio braccio e inizio ad accompagnare l’indice e il medio prima col terzo e poi col quarto dito.
Entrano come se introducessi la mano dentro a un tubo di gomma che si sta liquefacendo, caldo e cedevole.
Il ragazzo alterna i suoi gemiti a brevi e potenti sniffate, implorandomi di spingere ancora mentre inizia a masturbarsi.
Il mio sguardo sfoca la situazione, la sua schiena mi ricorda quella di Jeffrey e digrigno i denti, come in un attacco di bruxismo, pronto a infliggere del male.
In quel momento sto afferrando lo stomaco di Jeffrey e lo stringo in una morsa, voglio strapparlo, torcerlo, sentire i succhi gastrici che si riversano sulle sue interiora e le sciolgono fra atroci dolori.
Ripenso alle sue recite amorose fuori tempo massimo, e spingo anche il pollice dentro quella cavità arrossata ed umida, incontrando resistenza.
Con la mano libera afferro un fianco del ragazzo, ormai prossimo all’orgasmo, e ruoto il polso fino a sentire scricchiolare le cartilagini mentre le scaravento con impeto in profondità; le nocche si piegano conficcandosi nelle sue viscere che iniziano a palpitare violentemente quando il ragazzo espelle da sé tutto il suo piacere e tutto il suo dolore.
La sua testa crolla sul cuscino, il volto sorridente, ma bagnato di lacrime.
Con premurosità attenta libero la mano dalla stretta del suo corpo, con il cuore di Jeffrey schiacciato fra le mie dita.
I miei occhi si riaprono e non rimane che contemplare plastica intrisa di umori e lubrificante, frammisti di rare gocce purpuree.
Mi strappo il guanto e lo scaglio con forza contro la finestra.
Il ragazzo mi fissa, con le pupille tinte di vergogna ed endorfine al tempo stesso, e mi invita a sdraiarmi accanto a lui.
Lo abbraccio cingendo le sue spalle mentre siamo chini su un fianco; lui si stringe le mie mani al petto, come se pensasse di aver conquistato la mia protezione ed io lo illudo posando delicatamente le mie labbra sulla sua nuca.
La violenza non placa i tuoi moti di rabbia se non è rivolta verso la sorgente di questi ultimi; li ammutolisce per qualche minuto, ma poi riemergono come la testa decapitata dell’Idra, come un viscido drago che si morde impazzito la coda fino a lasciarne solo brandelli.
ATTO III – FRATTURE
Nudo e seduto sul divano di pelle nera che avevamo acquistato insieme, premo stancamente il grilletto della Glock rivolgendola verso il pavimento.
Il mio corpo, asciutto, scolpito con costanza ed esangue, è solo il contraltare della raffigurazione del Dio architetto dipinto da Blake appeso sopra di me; io sono il mostro prodotto dalla sua matematica creatività.
La pistola è scarica, lo è sempre stata, non ho mai aspirato ad usarla, ma un paio di pallottole scalpitano, desiderose di deflagrare in un cervello qualsiasi.
Mi appoggio al divano e spingo la canna della pistola fino in gola immaginando che l’esplosione di frammenti di ossa e gelatine cerebrali che si sarebbe sparpagliata sul quadro di Blake sarebbe sembrata ai poliziotti il risultato di un gesto rancoroso compiuto per rispedire al mittente il suo raggio creatore, rivoltandoglielo in faccia.
Travolto da conati di vomito, mi strappo di bocca la Glock e mi addormento rannicchiato su me stesso, piangendo isterico, mentre la mia mano stringe l’arma così forte che la circolazione si blocca fino a farla impallidire, ormai percorsa da crampi.
Sto sognando, lo so che sono intrappolato in un accecante incubo, ma in questo momento lui è di fronte a me, che supplica comprensione, perdono, mi ricatta con parole d’amore, vuol suscitarmi sensi di colpa per la mia fermezza ed io lo spingo contro il muro urlando, con tutta la forza che ho in corpo.
Il suo volto implode per il dolore e fulminei fiotti di sangue sgorgano dalla sua testa sporcando la candida parete.
Prima gli incastro tra i denti la pistola, tenendogli la fronte bloccata con una mano, ma concludo che non sarebbe abbastanza punitivo e dopo aver gettato l’arma per terra carico il mio braccio di ogni atomo di rabbia che mi agita, sento i tendini che si stanno per strappare e sferro il pugno contro la sua faccia col preciso intento di demolirla; in quell’istante la sua figura evapora e la parete mi scortica la mano aggiungendo frustrazione a frustrazione.
Scivolo lungo la parete, svuotato, inerme, senza piu’ domande o risposta alcuna che mi rimbalzino in testa come dannati impazziti ed intrappolati fra le vampate delle fiamme.
Accendo la televisione, seduto sul pavimento, sperando che l’apatia inculcata dal tubo catodico plachi le pulsazioni delle mie ferite, che mi imbrattano il corpo scrivendo le mie colpe, ma non riesco neanche a notarlo.
Ascolto, come filtrate da una galleria che ne rende il suono ottuso, le parole di odio dei reverendi, dei ministri, di quei luridi cani che non accettando la propria sessualità, sfogano la loro autocommiserazione in sermoni che invocano punizione per chi si sente libero e completo, anche al di fuori dei canoni morali ufficiali.
Alla difficoltà di vivere un amore, si sovrapponevano gli ostacoli interposti da menti perverse incapaci di guardare dentro se stesse e ormai completamente divorate dalle loro distorsioni, dalla necrosi di un cuore ucciso prima ancora di battere, dal lezzo marcescente di un’anima che sa solo condannare e mai comprendere.
Il problema sono io, sei tu e tutti quegli altri.
Da chi cominciare?
ATTO IV – LA SENTENZA
Sono di fronte alla chiesa della mia cittadina, deturpata da giorni dalle scritte piene di sdegno per le parole vomitate, con puro intento di ignorante provocazione mediatica, dal cardinale, che in modo abietto ha declassato alcune forme d’amore a mere deviazioni, a delinquenza, a criminalità.
Un certo tipo d’amore per lui non è possibile.
Eppure l’ho provato, mi ha fatto vibrare.
Un certo tipo d’amore per lui è solo illusione.
Ed in effetti non sono riuscito a trasformarlo in realtà.
Salgo lungo i gradoni di pietra a due scalini per volta, col serio intento di far rivivere a tutti coloro che mi disprezzano la loro santificata via crucis, trascinandoli nel loro stesso sangue stazione dopo stazione.
La voce di Jeffrey mi richiama ed inizialmente non mi volto, sicuro che sia frutto della mia mente annebbiata e senza piu’ un obiettivo certo.
Ma come Orfeo si volto’, timoroso di perdere Euridice, mi giro, spinto dal barlume di speranza di rivederlo per un’ultima volta e capire, guardandolo negli occhi, il perché tutto sia precipitato così miserevolmente.
Jeffrey è davvero dietro di me, mi ha seguito, voleva parlarmi.
Mi inonda con uno sproloquio di autoindulgenza, di giustificazioni, e senza chiedere una sola volta perdono per credere di saper amare, pur essendone incapace, tenta di soffocarmi con i discorsi piu’ biechi sull’amore e sulla possibilità del perdono.
Che cosa si puo’ perdonare davvero?
Si possono tollerare le debolezze altrui?
Si puo’ tollerare che qualcuno discorra in modo insensato di sentimenti, riempiendosene la bocca come se li sapesse gestire e rispettare davvero (in uno squallido teatrino con lo scopo di elemosinare altri sprazzi di affetto) o sputandoci sopra, al contrario, tutta la propria bile?
Quale dignità hanno persone in grado solo di giocare all’amore, scambiandolo col sesso o con la possessione, od incapaci di riconoscerne la fondatezza, la validità, la consistenza, la sua intensità?
E quale dignità rimane a me, intrappolato tra i fuochi del fanatismo morale ed i fuochi fatui di un mondo popolato da persone immature e superficiali che vivono inseguendo specchietti per le allodole e facili soluzioni?
Il tono dolce della sua voce, che un tempo mi seduceva con poche note, mi sussurra la richiesta di imparare a tornare sui miei passi.
Eppure non sono felice, né nella sua stanza delle torture né in quella in cui mi chiuderebbero altri.
Mi porto le mani alle tempie e strizzo le palpebre, sperando che riaprendole lui scompaia; ma è lì, davanti a me, e tende una mano per accarezzarmi e stringermi a lui.
Indolente, mi faccio trasportare nel suo abbraccio, riprovo per un istante quell’intimità fisica che un tempo mi conferiva forza e serenità, ma il suo corpo è ormai freddo, un involucro spento, e la lucidità dei suoi occhi mi rattrista solo, fa esplodere tutta la mia delusione per una persona che non ha mai voluto davvero capire quali sentimenti provassi per lui, per la paura di lasciarsi andare, e per quel vizio infame di cedere a ogni tentazione, come se ogni nuova scoperta fosse piu’ prelibata di quella precedente, prima di constatarne amaramente il contrario.
Io non posso piu’ perdonare, non posso piu’ tornare sui miei passi, non posso piu’ guardare indietro verso momenti di sofferenza.
Sollevo la mano armata dietro la sua schiena e accostando la mia bocca alla sua fino a sfiorarla, gli occhi chiusi, emetto la sentenza.
–E’ finita-.
wow!
Credo che mettere a nudo così, la propria rabbia non sia facile.
Complimenti per lo scritto, anche se talvolta forse qualche parola prende reminescenze un pelo retoriche (ma sai che non sono mai contento al 100%).
Ciao, e buona settimana!
S.
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