Sion Sono riprende il nucleo narrativo centrale di Suicide Club e ne riaffronta le vicende costruendoci intorno una trama inaspettata che ne svela i retroscena e, nello stesso tempo, ne riprende anche i temi rafforzandone il messaggio ed espandendolo, mettendolo più a fuoco e includendo temi ricorrenti nei film successivi (l’assenza di veri rapporti famigliari, l’ipocrisia della felicità, che è o una maschera o una conquista da pagare anche a caro prezzo con la morte sociale o fisica, la ricerca di capri espiatori quando il vero club del suicidio è il mondo).
È un film completamente diverso da quello shocker che fu Suicide Club, più verboso, intimista, psicologicamente complesso e nonostante l’assenza di scene sanguinolente, se non il già noto suicidio delle 54 studentesse, a tratti comunque spiazzante nelle scene in cui il delirio viene messo in scena con toni rassicuranti e naturali.
Il momento di massima serenità coincide con il momento di massima finzione.
Anche quelle rare volte che Sono sceglie il minimalismo, la satira sulla famiglia (solo giapponese?) è a pallettoni.
Certo, le 2 ore e 40 sono eccessive (e io non ho sentito le quasi 4 ore di Love exposure) anche se il personaggio sadico e disperato di Kumiko, orfana distruttiva, tiene alta l’attenzione.
È scattato il 2018 e avevo appena finito di vedere questa parabola sull’arte e la realtà, il patriarcato e l’incesto, le mutilazioni e la rinascita.
Ho fatto incubi con pareti di sangue e scene da ero guro.
Sono andato a brindare con una tanica di benzina per depurarmi da questo ennesimo maledetto capolavoro nonché uno dei più efferati e intensi film horror degli ultimi 20 anni.