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Peace is for pussies

The lodge

thelodgeHo atteso con ansia The lodge dopo essere rimasto entusiasta, quanto atterrito, per Goodnight Mommy, un elevated horror del 2014 risalente a quando ancora non si usava queste sciocca espressione tipica di chi bazzica un certo genere da ieri (come se quell’anno non fosse uscito pure It follows che si basava su una citazione da L’idiota, come se l’elevated horror nella sua accezione moderna non l’avesse già creato Ingmar Bergman con L’ora del lupo nel 1968, come se non lo fosse L’inquilino del terzo piano di Polanski, ma perché non risalire indietro  fino a The cabinet of Dr. Caligari del 1920).

Etichette e proprio l’etichetta, o meglio, l’identità personale che si scontra con l’identità e il ruolo all’interno della famiglia ritorna come tema centrale anche in The lodge, un film che ricicla tutto e non reinventa niente per avvolgersi in una cornice fatta di topoi usati come inganno commerciale e narrativo ma che racchiude il nucleo essenziale di ogni vero film horror, comunque vogliate definirlo: la paura viscerale di perdersi ed essere sopraffatto.

In Goodnight mommy l’assunto era l’incapacità da parte di un bambino di riconoscere la madre dopo un intervento di chirurgia estetica. La pelle che si abita è la maschera sociale con cui gli altri ci riconoscono e questa destabilizzazione nella mente di un bambino che ha già subito un doppio trauma (il divorzio dei genitori e un lutto schizogenico) lo conduce alla ricerca psicotica della madre perduta, forse nascosta in quei nuovi panni. Il bambino diventa il boia per una donna che vuole ricostruirsi una vita e l’incomunicabilità fra un’adulta che vuole essere completa e non solo una madre e un bambino che vuole essere solo un figlio conduce inevitabilmente al dramma.

Queste dinamiche e tematiche ricorrono anche in The lodge, così come lo stile registico gelido e i dialoghi limati alla lettera, tanto da ricordarmi scelte del sempre austriaco Haneke, e questa volta di Haneke ritrovo ancora di più le lezioni maggiori, quelle su come si costruisce una sceneggiatura e si manipolano gli spettatori e i protagonisti stessi.

Lo sguardo del regista sembra assente, neutro, come un occhio opaco, ma è un altro inganno perché i due registi guidano subdolamente gli spettatori lungo la strada emotiva che hanno in mente fin dall’inizio e ci riescono così efficacemente che sfido chiunque a non restare col fiato sospeso durante tutta la mezz’ora finale.

Se Goodnight Mommy, film indipendente, aveva una sua identità svincolata da manicheismi yankee, con The lodge i due autori, più forti in termini di budget per la produzione non europea, prima ti fanno vagabondare giocando con luoghi comuni da film horror medio e, all’apice di questo gioco, fanno crollare le apparenze e le teorie dello spettatore trascinandolo in territori della paura adulti e ben lontani dal facile intrattenimento.

Curiosamente un tentativo simile fu fatto da Scott Derrickson con Sinister, inserendo la scena del litigio fra i coniugi, una scena chiave per interpretare il film (sfacciatamente conservatore, cristiano e familistico, ma un regista conservatore può avere la sensibilità giusta per rappresentare lo sconvolgimento emotivo di un mondo che sente franare, anche se è un piccolo e patetico mondo antico. D’altra parte pure i fascisti nostrani non sanno fare altro che piagnucolare e profetizzare distruzioni di civiltà).

Il punto di vista di Veronika Franz e Severin Fiala invece è esattamente opposto fin da Goodnight Mommy e, quando hanno letto la sceneggiatura di Sergio Casci, ci si devono essere fiondati sopra come barracuda rafforzando certe prospettive. Il nemico non è esterno alla famiglia, ma la famiglia ha già in sé tutti i meccanismi dormienti che possono trasformarla in un gruppo di cannibali. Non solo, la religione cristiana, tratteggiata con le peggiori sfumature da setta, viene ridotta a parole, simboli e oggetti il cui unico fine è la distorsione della percezione della realtà.

Il cast è a dir poco minimale, Richard Armitage poco più dello stereotipo del padre assente e superficiale, e unico nome di vago richiamo così come quello inaspettato di Alicia Silverstone, comparsa effimera ma efficace, forse anche perché associandola ai suoi precedenti lavori il suo destino stride fortemente con l’immagine che si porta dietro. Tuttavia i tre coprotagonisti riescono a suscitare i dovuti sentimenti di antipatia ed empatia necessari a rendere realistico un vero e proprio psicodramma, un teatro della crudeltà senza fine.

In particolare Riley Keough ha dovuto affrontare un ruolo passibile, come quello recente di Joaquin Phoenix in Joker, di critiche alla rappresentazione di chi soffre di disturbi mentali (il matto è sempre inguaribile, il matto è sempre pericoloso). Le sue problematiche sono evidenti ed è proprio il rapporto delle persone con le malattie mentali che innesca la tragedia.

Grace è una sopravvissuta a un evento violento su cui grava un pregiudizio, tanto da nascondere le sue pillole, ma soprattutto su cui gravano aspettative che forse neanche vuole soddisfare (la sostituzione di una madre) ma che le vengono imposte. L’essere sbalzata fra il ruolo di mentalmente disturbata e quello di matrigna invece di consentirle progredire rischia di farla regredire, affogandola in tutto il suo inconscio devastato dalla religione.

E’ la lotta di Grace contro la cattiveria esterna che fa sviluppare empatia nei suoi confronti, il suo faticare a tenere insieme i pezzi di sé che ha incollato, per dimenticare la follia che l’ha circondata per una fase della sua vita. La consapevolezza di questa vulnerabilità può essere il grimaldello per distruggerla e far riaffiorare logiche distruttive e fanatiche.

Al dolore si può reagire con rabbia, e la rabbia rende ottusi e cattivi, o dimenticando. L’incontro fra le due forme di dolore e reazione, dei ragazzi e di Grace, è la reazione chimica alla base di un film in cui il proprio dolore non solo diventa insormontabile ma si somma a quello degli altri aprendo le porte a un caos emotivo.

Ed è quando si aprono queste porte che lo spettatore capisce che non si scherza più, che non ci sono lutti o pregiudizi che giustificano certi livelli di cattiveria e che la richiesta di pentimento sarà durissima.

Se non bastasse già la sceneggiatura da sola a sostenere il film, alla sua preziosità contribuiscono la fotografia di Thimios Bakatakis (Il sacrificio del cervo sacro, The lobster, Dogtooth) che rende ancora più glaciale la neve carceriera à la Shining (in un film in cui c’è un cane di nome Grady e un personaggio di nome Wendy) e più cupo e soffocante il legno della casa o la riproduzione dell’Annunciata di Antonello da Messina, che diventa minacciosa e inquisitrice, la colonna sonora di Danny Bensi (The outsider, Orzak) e Saunder Jurriaans (Enemy, The autopsy of Jane Doe), già collaboratori per American Gods o Fear the walking dead e che puntellano i momenti di tensione senza strafare, ma soprattutto il montaggio di Michael Palm, documentarista austriaco che non lascia alcuna sbavatura e mette insieme le scene come se fossero lente coltellate fermandole prima che tocchino l’osso (il taglio sulla scena finale sembra realizzato contando le pulsazioni dello spettatore).

Se l’espressione elevated horror ha un senso questo risiede nel fatto che nell’utilizzo di stilemi dell’horror, arricchiti da un comparto tecnico-estetico di prim’ordine, da una parte il film ti porta in alto ad ammirare le meraviglie e le potenzialità sensoriali del cinema (qualcuno ha detto The lightouse?), dall’altra ti fa precipitare in quel luogo oscuro in cui tutti più temiamo di sprofondare, che non sono le paludi di Crystal Lake ma il nostro inconscio fuori controllo.

2 commenti su “The lodge

  1. Non sono d'accordo
    05/05/2020

    Io ho trovato questo film di una banalità pazzesca. E la Keough per me si riconferma una pessima attrice. Ma la cosa non mi stupisce perchè sono quasi sempre stato in disaccordo con te. Detto questo aggiungo che è un vero peccato leggere le tue esternazioni in maniera così sporadica. Hai un’obiettività e una cultura legata al mondo del cinema da far invidia a tanti osannati critici cinematografici

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  2. Lenny Nero
    05/05/2020

    Comunque può essere interessante sentire opinioni diverse, per cambiare la propria o confermarla. Sono un reverse benchmark, insomma. Ma mi piace. 😉 (Eh, non è che non abbia visto niente in questi mesi, ma nulla che mi abbia stimolato così tanto da portarmi a imbrattare un po’ il blog. E poi s’invecchia, non si ha il più tempo di una volta. C’è voluta una quarantena!).

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Questa voce è stata pubblicata il 03/05/2020 da in Cinema, recensione con tag , , , .

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