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Gone girl (L’amore bugiardo)

ggIl post è rivolto a chi abbia già visto il film diretto da David Fincher o letto l’omonimo libro di Gillian Flynn dato che contiene numerosi accenni alla trama. Anche voi uccidereste se qualcuno ve la rivelasse.

Sommario

1.Introduzione

2.Le tre note dolenti

a) Il matrimonio: una forma astratta di body-horror

b) Misoginia: la seconda corda

c) Sweet dreams are made of this: la terza corda

3.Il film (oltre ai commenti sparpagliati nel soprastante sparpagliamento di idee)

Introduzione

Gone girl di Gillian Flynn è un libro efficace nel procurare divertimento esilarante, tramite l’illustrazione di azioni e pensieri terrificanti elaborati da coniugi schiacciati da una relazione tossica e, nel contempo, nell’attivazione dei nostri neuroni a specchio e nello stimolarci domande sulle nostre relazioni e sulla percezione e l’idealizzazione di noi stessi.

Un contraccolpo peculiare al libro e alla trasposizione cinematografica è rappresentato dai fiumi d’inchiostro profusi in un ameno dibattito il cui nucleo è Gone girl è femminista o misogino?, a cui avevo già accennato in termini generali commentando Scalene.

A questo quesito si è aggiunto a corollario il fastidio, a tratti feroce e rilevabile anche nei forum, per la visione anti-romantica del matrimonio e per la simulazione degli abusi che, in questi mesi di cronaca nera americana, deve aver avuto l’impatto di lapislazzuli roventi lanciati negli occhi di chi s’impegna contro la rape-culture, talora approdando anche a estremi discutibili, sia giornalisticamente sia in termini di opinioni personali.

Una parola ricorrente è insults.

Premesso che un autore può narrare una storia per rappresentare la sua prospettiva su un determinato tema, magari anche provocando, le suddette reazioni sono indicative di una fase storica e culturale in cui è emersa un’ipersensibilità che a volte travalica nella caccia alle streghe (espressione adottata pure nel film) e nell’isterica difesa dei propri cosiddetti valori.

Avendo il sottoscritto una concezione biologica, violenta e a-spirituale della vita devo sforzarmi per comprendere quali corde così sensibili siano state toccate dall’opera di un artista tanto da suscitare, almeno negli USA, un dibattito a cui non si assisteva dai tempi di Natural born killers (ma siamo negli anni 2000 per cui Fincher può rilassarsi: intanto viene sottoposto a processo sul web e sui magazine, non in un aula di tribunale).

Le tre note dolenti

  • Il matrimonio: una forma astratta di body-horror

La prima corda ferita è il risultato dell’atteggiamento critico verso il matrimonio o, per esteso, alle relazioni di coppia.

Erano anni che non vedevo un film di Fincher che suscitasse in me una reazione emotiva o una riflessione ed è merito in gran parte proprio delle affermazioni sarcastiche dei personaggi creati da Gillian Flynn.

Sia il libro sia il film lasciano un’amarezza per la quale non sembra esserci medicamento.

L’osservazione nichilista in base a cui la costruzione delle nostre individualità e dei rapporti di coppia si basa sulla rappresentazione, sul fingere di essere più che sull’essere, risulta esplicita nel film.

Il circo mediatico si impone su Amy e Nick, ne influenza le azioni, ne modifica le decisioni, diventa persino un mezzo tramite cui comunicare interpretando un ruolo: quello del compagno perfetto.

Le relazioni funzionano fino a che entrambe le parti prendono il meglio l’una dall’altra, fino a che si stimolano a essere migliori di quello che sono, ad avvicinarsi a un modello ideale in cui trasformarsi.

Che in qualche modo significa anche perdere se stessi nella coppia.

Nick resta con Amy, nonostante sia fonte di elevazione, ma anche venefica perché, come gli spiega la moglie più consapevole e lucida, si piace solo quando è l’uomo che piace a lei.

Nel momento in cui la crisi economica e i problemi famigliari travolgono i due coniugi l’urto è tale che Nick smette di essere l’affascinante Nick Dunne inducendo progressivamente Amy a smettere di essere Amazing Amy.

Il risentimento per la perduta posizione economica, che ottunde prima i pensieri del maschio-cacciatore, fa tornare Nick alle posizioni di partenza e lo porta a rinchiudersi in se stesso.

Amy diventa nuovamente una variabile esterna e le promesse vicendevoli di affrontare insieme la situazione svaniscono in un rancore cieco.

Non è forse una storia comune in questi anni?

Amy, tuttavia, mantiene un barlume di responsabilità anche se continua a perdere posizioni di classe (sociale, professionale), ma quello che Nick sa, ma non ha sufficientemente soppesato, è che Amy è un vaso di Pandora ormai colmo. (E su questo punto torno nel paragrafo Misoginia: la seconda corda).

Nick non ha la forza di carattere di Amy, che non appartiente a quella diffusa tipologia di moglie che ama indossare i panni di madre sostitutiva (e perché dovrebbe?), e quando forza un’altra offesa nel vaso di Amy, questo esplode.

Nick quel pugno in faccia che lo riporta a più miti consigli se l’è cercato.

Il problema è in che cosa consistono questi ultimi e come vengono rappresentati.

Nick e Amy si costringono a diventare il cane e il gatto meccanici (metafora greve e ridanciana), s’ingabbiano nel preciso e semplice modello borghese di coniugi felici e ancor più felici perché in attesa di un bambino, un’ispirazione.

Amy incatena il marito alle sue responsabilità come padre anche con la minaccia di distruggerne l’immagine (e l’ironia sulla velocità con cui una persona può essere demolita e poi portata su un piedistallo di fronte a una nazione è sopraffina), ma soprattutto Amy ha ben chiaro un punto: Nick e Amy, come coppia, sono una nuova entità, una versione migliore di se stessi.

In coppia Nick è stimolato a essere al livello culturale di Amy, mentre la moglie si tiene l’uomo dei sogni che ha forgiato.

Separati sono solo un ragazzotto qualunque e una frustrata borderline che potrebbe nuovamente diventare una scheggia impazzita.

Una forma di autocontrollo reciproco, per non abbandonarsi ai propri difetti nei quali ci si avvolge come coperte calde fino a che ci soffocano, ma che porta anche a resistenze e risentimento.

Ma, per citare la pragmatica e sentenziante Amy, questo è il matrimonio.

Tale dinamica di trasformazione, una forma astratta di body-horror, nelle sue sfumature di costrizione violenta, illuminata glacialmente nel film di Fincher mentre le note di Reznor creano un disagio pervasivo e sottile, è descritta in modo più preciso e credibile rispetto al libro e lascia agli spettatori mille domande tra cui una imperante: che cosa vi siete fatti l’uno all’altro?

Si tratta di domande pesanti, domande che spingono una coppia a guardarsi sotto raggi che evidenzino fratture e ricomposizioni.

Fincher nel corso di un’intervista ha dichiarato scherzosamente che sarebbe contento se Gone girl causasse un milione di divorzi.

Preferirei pensare che spinga le persone a chiedersi se una relazione li ha plagiati o li ha migliorati, se sono più le ferite delle evoluzioni.

Forse le persone non nutrono il desiderio di porsi domande.

Di recente ho visto per la prima volta Chi ha paura di Virginia Woolf (1966), diretto da Mike Nichols.

Credo di non aver mai assistito nemmeno durante un film di Bergman alla messa in scena di un livello così estremo di violenza verbale, proprio fra coniugi il cui rapporto si regge su una finzione psicotica che, quando crolla, apre le porte alla disperazione (e se non l’avete mai visto e considerate nichilista Gone girl, quel film ridefinirà il vostro concetto di nichilismo).

Bisognerebbe chiedersi quando siamo diventati così ipersensibili, refrattari a qualunque punto di vista obliquo o ruvido sulle relazioni umane (e voglio pensare che tra i miei 25 lettori non ci siano persone che addirittura vedano il matrimonio come una sacra istituzione) e soprattutto poco autoriflessivi.

  • Misoginia: la seconda corda

L’accusa di misoginia rivolta a libro e film continuo a non afferrarla.

Se statisticamente la figura della psycho bitch è rara e ancor meno lo è quella della sociopatica funzionale (per la natura femminile o è un indotto culturale?), sul grande schermo tali figure sono state portate più volte di quanto immaginiate, anche se i personaggi più simili a quello di Amy che mi vengono in mente sono presenti in due film di Verhoeven: Christine Halsslag de Il Quarto uomo (1983) e Catherine Tramell di Basic Instinct, personaggio cui la stessa Rosamund Pike ha dichiarato di essersi ispirata (con risultati differenti e di vaste lunghezze migliori), anche se io continuo a pensare che la figura di riferimento sia reale e sia Agatha Christie.

Le protagoniste sono più interessanti e ben caratterizzate rispetto a qualunque altro personaggio maschile, dalla sorella di Nick alla detective Boney, per altro esempio di donne con le quali si è estremamente simpatetici (al contrario, per esempio, della madre di Amy che, dal mio punto di vista, è madre frigorifero nonché la vera stronza).

E lo stesso Nick assomiglia a quelle figure maschili incolori che hanno imperversato nei film diretti da Kubrick con la funzione di personaggio-specchio (e la mimica goffa e limitata di Ben Affleck per questo scopo è perfetta).

E’ falso che tutte le donne siano rappresentate in modo negativo e soprattutto davvero qualcuno giustifica Nick per il suo apparire docile e indolente, quando è un immaturo, senza prima essersi chiesto quale contesto abbia reso Amy una sociopatica?

Perché puntare l’indice contro la violenza di Amy, senza offrirle margini di comprensione, quando il film riesce a rappresentare i tratti salienti del suo background psicologico con eleganti sintesi visive (la carrellata sulle copertine dei libri) rafforzate da staffilate verbali che sottolineano come l’aporia della protagonista sia quella di essere sempre stata un passo indietro rispetto al suo doppelganger cartaceo?

La messa per iscritto di tutti i suoi fallimenti, dalla nascita al matrimonio, da parte di genitori che hanno fatto vivere la figlia all’ombra di un personaggio fittizio e ideale.

Tanti libri che sono tanti epitaffi, tanti non sei perfetta.

Trent’anni di tortura psicologica incessante a cui a un certo punto s’interseca un altro modello di perfezione sessista da raggiungere: quello della cool girl.

Amy ha trascorso la sua vita a essere perfetta in base a certe linee-guida culturali per le donne.

E’ cresciuta nel mito della perfezione che ha generato in lei un’iperreattività a qualunque torto, umiliazione o attacco alla sua dignità, per quanto minimi.

Il suo è uno sforzo che esaurisce, che richiede costanza, abbassa la soglia di tolleranza e alza il livello di ipercriticità che si sposta da se stessi agli altri.

Per Nick di pazienza ne ha avuta per anni: è stata la moglie perfetta, l’ha seguito senza opporsi od osare porre dubbi, ha tentato di mantenere la promessa di non diventare una presenza poliziesca.

Quando hai perso tutto per seguire il tuo compagno, e scopri di aver perso pure lui, anche una persona con meno problematiche di fondo reagirebbe in modo inconsulto.

Amy dalla sua ha la disciplina appresa in anni e dal suo punto di vista il torto di Nick si colloca sullo stesso piano di un omicidio e la retribuzione deve pareggiare i conti.

Non si tratta, pertanto, della rappresentazione di follia pura e semplice, ma di un percorso di vita.

E Amy non è una psicopatica chiaramente inquadrabile come Annie Wilkes e non è neanche una predatrice sessuale come Catherine Trammell.

Per cui da quali sue sfumature deriverebbe una rappresentazione misogina quando invece Amy è la prima vittima culturale?

Amy è diventata un’educatrice sui generis e deve ricondurre sé e il marito sul percorso che hanno abbandonato.

Più che rappresentazione misogina delle donne, viene dipinta l’applicazione ferrea di una logica su cui è stata fondata coercitivamente un’intera esistenza.

  • Sweet dreams are made of this: la terza corda

In questi ultimi mesi ho letto diversi articoli riguardanti la cosiddetta rape culture, gli stupri nei campus americani, la percentuale irrisoria di stupri per cui si ottiene una condanna, le polemiche sulla maglietta di Matt Taylor con eroine sci-fi stilizzate diventate agli occhi di qualcuno “donne nude”*, le accuse a Bill Cosby (che sarebbe uno stupratore seriale), la cattiva gestione di una storia di violenza sessuale da parte di Rolling Stone fino alle polemiche per un episodio di Newsroom in cui un giornalista mette in dubbio la credibilità di certe accuse da parte di una ragazza e critica il progetto di un sito tramite cui si possano denunciare i presunti violentatori (e quindi la possibilità di un suo utilizzo a scopo di diffamazione o vendetta dato che un’accusa simile può rovinarti la vita).

* (e su cui la mia opinione non richiesta è 1) si poteva cogliere l’occasione per conferire visibilità a tutte le donne che lavorano presso la NASA e l’ESA per le quali esistono siti dedicati e sarebbe consigliabile sfruttare il web con meno isterismo e 2) se è una maglietta che t’inibisce è perché non ci credi abbastanza. E’ come se gli omosessuali si sentissero psicologicamente inibiti a entrare in certi ambienti, da quelli lavorativi fino alle palestre o persino qualsiasi locale, per tutti i commenti omofobi che sentono e che feriscono a qualunque età. Più pelo sullo stomaco e dimostrate quanto valete: si tratta di enti scientifici: valutano i risultati, non le misure fisiche).

Siamo in pieno pandemonio.

Scrivo pandemonio perché da una parte considero una battaglia condivisibile far emergere certi episodi o addirittura, che è l’elemento più grave, il contesto culturale che in qualche modo li nutre e l’ago della bilancia si è spostato pesantemente verso una maggiore attenzione su questi temi.

Dall’altra l’efficacia di certe battaglie richiederebbe obiettivi più focalizzati e più lucidità nei modi, perché se uno sbraita poi non si può lamentare se qualcuno glielo fa semplicemente notare.

Inoltre nutro remore ad allontanarmi troppo dal concetto di innocente fino a prova contraria e considero aberrante che, qualunque sia il reato in questione, lo si deformi in colpevole fino a prova contraria o che un’accusa venga considerata sempre come veritiera.

Ho ritenuto più istruttivi (oserei definirli agghiaccianti) articoli neutri su questi argomenti che non post e commenti di sedicenti femministe che probabilmente non si accorgerebbero neanche che Patrick Bateman sta puntando loro una sparachiodi alla testa.

Lo stesso moto di pensiero isterico è quello che ha portato ad accusare di misognia Gone Girl, salvo poi considerare misogino ed eteronormativo (e a maggior ragione) anche Biancaneve.

Insomma, che tipo di donna, come se donna fosse un concetto monolitico, è accettabile rappresentare?

Al di là di questo aspetto, Gillian Flynn e David Fincher si muovono in mezzo a questo schieramento di fuoco con la leggerezza di un panzer.

L’operazione di scrematura del testo originale e delle prime versioni dello script ha condotto alla cesellatura di dialoghi e informazioni fornite allo spettatore in un’operazione di sintesi di qualità chirurgica.

Pertanto vengono sottolineati alcuni passaggi e concetti in cui emerge chiaro un dato: Amy ha inventato gli abusi da parte del marito, aveva già simulato uno stupro in passato e, memore della sua impresa precedente, si cava d’impaccio allo stesso modo con Desi, in modo anche più brutale (la bottiglia per simulare i traumi!) e istrionico (la valutazione della posizione delle telecamera, la messa in scena dell’aborto, la disperazione a favore di obiettivo).

BOOM!

L’invenzione degli abusi, la finzione di uno stupro, quando un messaggio spesso ripetuto è che le donne non mentono mai, anche se diversi studi affermano che invece accade (e perché non dovrebbe?), sono situazioni che in questo periodo storico, se rappresentate, vengono percepite come offensive.

Mentre guardavo Gone girl potevo immaginare certe persone sbiancare, ammutolire e poi chiedere di esporre la testa di Fincher conficcata su una picca, perché women never lie.

Non so quanto Fincher fosse consapevole delle implicazioni della storia allestita, ma sarebbe anche necessario tenere presente che si tratta di fiction e che la versione filmica di Gone girl si focalizza soprattutto sui rapporti interpersonali.

Tornando indietro nel tempo non ricordo polemiche per la trama ben più macabra di Malice, sempre parto di Aaron Sorkin, mentre la puntata di Newsroom che, nella sua retorica esondante fino allo stucchevole voleva mettere in risalto l’ennesimo buon esempio di giornalismo, è stata seguita da innumerevoli articoli critici.

Da un lato la maggiore sensibilità su un tema delicato è da accogliere positivamente, dall’altro un’ipersensibilità corre il rischio di individuare colpevoli là dove in realtà non ce ne sono.

Per altro Gillian Flynn gode di una felice vita matrimoniale.

Almeno per ora.

Il film (oltre ai commenti sparpagliati nel soprastante sparpagliamento di idee)

Come accennato prima, non ricordo da quanto non avvertivo in un film di Fincher una tale energia e una tale voglia di portare sullo schermo una storia così cinica sulla percezione di se stessi e della realtà.

Per una questione di gusto personale il suo minimalismo claustrofobico e severo, l’uso delle stesse tavolozze cromatiche da parte di quel paio di direttori della fotografia che si alternano, la mancanza spesso totale di ironia ed empatia ma, soprattutto, una cifra stilistica riconoscibilissima imposta a qualunque tipo di storia mi hanno spesso dato la sensazione di star assistendo a una messa dal rituale codificato, per quanto di lusso, più che a un film.

Poi il progetto House of cards, di nuovo un marchio visivo inconfondibile, ma soprattutto le vicende dei signori Macbeth dei nostri tempi alle quali si adattava perfettamente.

L’impressione è che Fincher non solo sia stato meticoloso e maniacale come sempre, ma che si sia pure divertito a schiaffeggiare il pubblico e questo elemento di passione in più lo si nota innanzitutto dal ritmo con cui è orchestrato il film.

Due ore e venti minuti di colpi su colpi, di dettagli, testi e sottotesti che sommergono lo spettatore senza soluzione di continuità, di dialoghi e scene limati fino al massimo possibile perché non ci fosse un secondo di più o di meno e che scorrono fluidi e incessanti per almeno tre quarti del film, in corrispondenza del clou grandguignolesco.

Kirk Baxter, una scoperta di Fincher che si è già appoggiato a lui per gli ultimi quattro film, pur avendo avuto alle spalle solo il ruolo di additional editor per Zodiac, e già vincitore di due premi Oscar, svolge un ruolo fondamentale nell’incastrare le scene e i movimenti di camera contribuendo a questo flusso sinuoso, per quanto di stilettate taglienti.

Jeff Cronenweth eccelle quando Fincher lo spinge a deragliare dai ricorrenti verdastriospedaleabbandonato verso intrecci di penombre e tonalità monocromatiche e sature (la presentazione dell’ultimo libro di Amazing Amy, la scena delle promesse) che inseriscono negli eventi passati la presenza di una minaccia inconscia già incombente proprio sui primi anni da sogno.

Fincher ti seduce e incanta mentre ti sfoglia la pelle strato dopo strato e coordina editing e fotografia con la costanza di un rettile, fino alla sequenza capolavoro in cui la geometria della costruzione scenica diventa anche geometria dei corpi, lubrificati dal sangue che inonda come un’ombra liquida l’ambiente, in cui spicca solo la luce bionda di un’acconciatura che non vuole di certo scomporsi, mentre tambureggiano rantoli di lamiere (la versione upper-class della sequenza più controversa dei bassifondi di Angel Heart).

A questo proposito, finalmente il duo Reznor e Ross si allontana dall’uso di sample che potremmo far risalire alla soundtrack di Quake e tutto il film è pervaso dalla versione psicotica di musiche per un centro di meditazione, o adatte alla sala d’attesa della Loggia Nera, che strisciano fra i peli delle braccia.

Tra le ottime soluzioni di casting, non si può non evidenziare la performance memorabile e iconica di Rosamund Pike, talmente iconica che dovrà trovare prima possibile un ruolo in una commedia con Jennifer Aniston prima che guadagni la fine di Anthony Perkins.

L’attrice controlla il corpo con precisione robotica, più che muoversi sembra eseguire una coreografia, ma di lei resteranno impressi lo sguardo da Gorgone e l’impressionante voce, velluto impregnato di acido.

Ascoltarla doppiata è un torto verso se stessi e verso il film perché la sua voce è il tarlo delle coscienza che aleggia per tutta la durata di Gone girl, persino quando non è in scena.

Persino dopo i titoli di coda.

9 commenti su “Gone girl (L’amore bugiardo)

  1. psichetechne
    21/12/2014

    Vado a vederlo il 26. Con chi? Con mia moglie, naturalmente 🙂

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  2. psichetechne
    21/12/2014

    P.S. Quindi la tua recensione la leggo dopo averlo visto.

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  3. Lenny Nero
    21/12/2014

    se non hai letto neanche il libro, assolutamente dopo! E il libro comunque lo consiglio. 😉 Attendo tua recensione!

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  4. psichetechne
    26/12/2014

    Il libro lo sto leggendo in questi giorni. Notevole scrittura di questa scrittrice dalla faccia d’angelo e dal cuore di tenebra. Oggi vedo il film, poi ti dirò. Buone Feste!

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  5. psichetechne
    27/12/2014

    Concordo completamente con la tua recensione, e non so cos’altro potrei scrivere di più e meglio di quanto scrivi tu. Ma ci proverò. Probabilmente sul sito della Societá Psicoanalitica Italiana, su cui scrivo, ma forse anche da me sul blog. Ti faccio sapere. Mia moglie comunque ha trovato il film “inquietante”, il che mi sembra giá di suo un buon segno (mia moglie è infatti una donna che non si lascia perturbare facilmente). A presto.

    Piace a 1 persona

  6. Lenny Nero
    27/12/2014

    non sapevo dell’altro sito. Nel caso poi gira il link 😉

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  7. psichetechne
    28/12/2014

    Volentieri 🙂

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  8. psichetechne
    29/12/2014

    Postata una recensione al film, se ti aggrada 🙂

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  9. Photography in things
    02/01/2015

    Recensione immacolata, ottima davvero

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Informazione

Questa voce è stata pubblicata il 17/12/2014 da in Cinema, recensione con tag , , , , .

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